domenica 25 agosto 2013

Un altro pezzo del romanzo

- Oggi interroghiamo. Peretta vieni alla lavagna.
Un brusìo scosse la classe già intenta ad allenare i pollici sulle minitastiere del loro cellulari.
- Mah professore – protestò il Figo – oggi è giovedì e si va avanti con il libro di solito.
- Ogni tanto mi piace cambiare – gli risposi godendomi il suo sguardo di panico puro. Brutto stronzo, pensai, oggi imparerai cos’è l’umiliazione. Vediamo se le fighette della scuola ti verranno ancora dietro come un branco di vacche in calore.
- Ma professore non è giusto, perché proprio io?
- Peretta – gli risposi distrattamente facendo finta di cercare qualcosa nella mia borsa di pelle – la giustizia è un concetto che è mutato nel tempo. Oggigiorno ci sono un po’ troppe garanzie e diritti. Io mi ispiro alla giustizia babilonese. Conosci la giustizia babilonese?
Il Figo fece di cenno di no con la testa.
- Beh la scoprirai oggi.
Il resto della classe rimase tetanizzata, non sapeva se rincuorarsi di non essere stata scelta per lo scannatoio oppure temere che il brusco cambiamento della routine non diventasse la norma, aprendo lo spazio a scenari di devastante imprevedibilità. Il risultato fu un silenzio assoluto e totale, interrotto solo dal ronzio di qualche cellulare che aveva ricevuto un messaggio.
Mi rendevo conto che stavo attraversando una pericolosa linea di confine, passando dalla categoria di professore sfigato ma innocuo a quella di bastardo. Invece di impaurirmi, il pensiero mi fece venire un leggero brivido di eccitazione. Io di solito abituato a volare basso e scegliere il male minore ed evitare scrupolosamente ogni possibile rischio stavo improvvisamente uscendo dal calore confortevole delle zone protette per affrontare l’ebbrezza del vento gelido e sferzante dell’ignoto. La parte di me che era rimasta con i piedi per terra mi stava sussurrando all’orecchio che stavo facendo un’enorme cazzata e mi intimava prudenza. Ma la sua voce quel giorno era stranamente debole e fioca, inconsistente. Ci volle poco perché la parte più agguerrita, quella che di solito dorme profondamente, la mettesse a tacere facendo leva sul mio desiderio di rivincita, sopito certo, ma non del tutto morto.
 - Peretta prendi il gesso e scrivi: x alla seconda, meno y alla terza, fratto logaritmo di z alla quarta – continuai creando un’equazione irrisolvibile anche per il clone di Albert Eistein. Il Figo sembrava spaesato, un naufrago abbandonato alle onde. Aveva perso di colpo la sicurezza sprezzante che doveva mettersi addosso tutte le mattine assieme alla crema per il viso ‘Young Skins’ della Loreal e nelle pupille gli si poteva leggere a chiare lettere cubitali la parola ‘panico’.
- Peretta su non fare la bella statuina – gli dissi scribacchiando qualcosa sulla mia agenda. Ma il Figo-Peretta non si muoveva, gli occhi vacui puntati verso un punto immaginario tra il bordo inferiore della lavagna ed il battiscopa di truciolato laccato marrone che separava il muro scrostato dal linoleum verde scuro.
- Peretta ti sei incantato? – continuai girando la testa per guardarlo meglio.
- Peretta hai bisogno di un caffè? Dei pasticcini?
L’intera classe emise un suono incontrollato, breve e istintivo, all’unisono. Era una specie di sbuffo spontaneo. Avevano riso alla mia battuta, o almeno così mi parve. La gioia nel vedere soffrire il loro compagno di classe stava prevalendo sulla paura individuale.
- Peretta almeno dai un segno di vita, che ne so, facci vedere come balli sui cubi!
La seconda battuta ebbe ancora maggiore effetto della prima e nessuno stava più dissimulando il proprio divertimento. Risero tutti senza ritegno. Tutti tranne Stefania Melanti che mi guardava con aria ambigua: né terrorizzata né divertita, semplicemente interrogatoria.
- Peretta facci un favore, smettila di massacrare quel povero gessetto che non ti ha fatto nulla di male e usalo per risolvere la funzione.
Ma il Figo stava cedendo. Le mani sudate erano impastate di polvere di gesso frantumato dalla stretta nervosa e frenetica delle sue dita. Il mento gli si stava alzando e abbassando impercettibilmente, i muscoli delle mascelle contratti, la respirazione più evidente. Te si proprio beo, pensai guardando i tratti fini del suo naso finire tra sopracciglia folte e curate che inquadravano i suoi occhi color nocciola come la cornice di un’opera d’arte, ma non te capissi un casso de matematica. Non potei impedirmi di pensare che, nonostante tutto lo invidiavo profondamente. Se avessi potuto avrei sicuramente scelto il suo accesso facilitato alla figa piuttosto che essere il cugino povero di Pitagora com’ero io.
- Capitano Kirk chiama Peretta? Ci senti Peretta? – iniziai a girare lentamente il coltello nella piaga. Mi parve fosse piacere quello che stavo provando.
In un clima ormai da stadio, con l’intera classe a scompisciarsi dal ridere successe l’impensabile. Il Figo lasciò cadere il gessetto, le mani si mossero verso le labbra carnose che non riuscivano più a nascondere la forma tipica della disperazione. Gli occhi gli si inumidirono, la fronte perse l’elasticità perlacea per scomporsi in mille piccole rughe. Peretta iniziò a piangere. Prima una sola, solitaria lacrima, uscita quasi per sbaglio. Poi, come una diga che si squarcia di colpo, un fiume ininterrotto di lacrime che iniziarono a cadere sul linoleum con dei rumorosi ‘toc’ che fecero tornare il silenzio in aula.
- Vai al posto Peretta, lasciamo perdere. Per il momento ti metto un due, poi magari vediamo.
Mentre il Figo riguadagnava il suo banco cosparso di inutili suppellettili parascolastiche dal prezzo equivalente a quello della mia macchina, mi rivolsi alla classe con l’aria bonaria di un direttore di lager che vuole dimostrare insospettata magnanimità.
- Prendete il libro e apritelo a pagina centocinquantadue.

Un urlo di sollievo mi giunse alle orecchie. Feci un’ampia panoramica per godermi il momento. Tutti gli occhi erano puntati su di me in un misto di attenzione e attesa. Tutti tranne quelli di Peretta che fissavano il banco come se vi fosse proiettata un’immagine ipnotica e quelli di Stefania Melanti che erano fissi su Peretta, mentre con la mano lo stava consolando toccandogli affettuosamente il ginocchio. Avevo vinto la battaglia ma stavo perdendo la guerra.