- Oggi interroghiamo. Peretta vieni alla
lavagna.
Un brusìo scosse la classe già intenta ad
allenare i pollici sulle minitastiere del loro cellulari.
- Mah professore – protestò il Figo – oggi
è giovedì e si va avanti con il libro di solito.
- Ogni tanto mi piace cambiare – gli
risposi godendomi il suo sguardo di panico puro. Brutto stronzo, pensai, oggi
imparerai cos’è l’umiliazione. Vediamo se le fighette della scuola ti verranno
ancora dietro come un branco di vacche in calore.
- Ma professore non è giusto, perché
proprio io?
- Peretta – gli risposi distrattamente
facendo finta di cercare qualcosa nella mia borsa di pelle – la giustizia è un
concetto che è mutato nel tempo. Oggigiorno ci sono un po’ troppe garanzie e diritti.
Io mi ispiro alla giustizia babilonese. Conosci la giustizia babilonese?
Il Figo fece di cenno di no con la testa.
- Beh la scoprirai oggi.
Il resto della classe rimase tetanizzata,
non sapeva se rincuorarsi di non essere stata scelta per lo scannatoio oppure
temere che il brusco cambiamento della routine non diventasse la norma, aprendo
lo spazio a scenari di devastante imprevedibilità. Il risultato fu un silenzio
assoluto e totale, interrotto solo dal ronzio di qualche cellulare che aveva
ricevuto un messaggio.
Mi rendevo conto che stavo attraversando
una pericolosa linea di confine, passando dalla categoria di professore sfigato
ma innocuo a quella di bastardo. Invece di impaurirmi, il pensiero mi fece
venire un leggero brivido di eccitazione. Io di solito abituato a volare basso
e scegliere il male minore ed evitare scrupolosamente ogni possibile rischio
stavo improvvisamente uscendo dal calore confortevole delle zone protette per
affrontare l’ebbrezza del vento gelido e sferzante dell’ignoto. La parte di me
che era rimasta con i piedi per terra mi stava sussurrando all’orecchio che stavo
facendo un’enorme cazzata e mi intimava prudenza. Ma la sua voce quel giorno era
stranamente debole e fioca, inconsistente. Ci volle poco perché la parte più agguerrita,
quella che di solito dorme profondamente, la mettesse a tacere facendo leva sul
mio desiderio di rivincita, sopito certo, ma non del tutto morto.
-
Peretta prendi il gesso e scrivi: x alla seconda, meno y alla terza, fratto
logaritmo di z alla quarta – continuai creando un’equazione irrisolvibile anche
per il clone di Albert Eistein. Il Figo sembrava spaesato, un naufrago
abbandonato alle onde. Aveva perso di colpo la sicurezza sprezzante che doveva
mettersi addosso tutte le mattine assieme alla crema per il viso ‘Young Skins’
della Loreal e nelle pupille gli si poteva leggere a chiare lettere cubitali la
parola ‘panico’.
- Peretta su non fare la bella statuina –
gli dissi scribacchiando qualcosa sulla mia agenda. Ma il Figo-Peretta non si
muoveva, gli occhi vacui puntati verso un punto immaginario tra il bordo
inferiore della lavagna ed il battiscopa di truciolato laccato marrone che
separava il muro scrostato dal linoleum verde scuro.
- Peretta ti sei incantato? – continuai girando
la testa per guardarlo meglio.
- Peretta hai bisogno di un caffè? Dei
pasticcini?
L’intera classe emise un suono
incontrollato, breve e istintivo, all’unisono. Era una specie di sbuffo spontaneo.
Avevano riso alla mia battuta, o almeno così mi parve. La gioia nel vedere
soffrire il loro compagno di classe stava prevalendo sulla paura individuale.
- Peretta almeno dai un segno di vita, che
ne so, facci vedere come balli sui cubi!
La seconda battuta ebbe ancora maggiore
effetto della prima e nessuno stava più dissimulando il proprio divertimento.
Risero tutti senza ritegno. Tutti tranne Stefania Melanti che mi guardava con
aria ambigua: né terrorizzata né divertita, semplicemente interrogatoria.
- Peretta facci un favore, smettila di
massacrare quel povero gessetto che non ti ha fatto nulla di male e usalo per
risolvere la funzione.
Ma il Figo stava cedendo. Le mani sudate
erano impastate di polvere di gesso frantumato dalla stretta nervosa e frenetica
delle sue dita. Il mento gli si stava alzando e abbassando impercettibilmente,
i muscoli delle mascelle contratti, la respirazione più evidente. Te si proprio beo, pensai guardando i
tratti fini del suo naso finire tra sopracciglia folte e curate che
inquadravano i suoi occhi color nocciola come la cornice di un’opera d’arte, ma non te capissi un casso de matematica.
Non potei impedirmi di pensare che, nonostante tutto lo invidiavo
profondamente. Se avessi potuto avrei sicuramente scelto il suo accesso
facilitato alla figa piuttosto che essere il cugino povero di Pitagora com’ero
io.
- Capitano Kirk chiama Peretta? Ci senti
Peretta? – iniziai a girare lentamente il coltello nella piaga. Mi parve fosse
piacere quello che stavo provando.
In un clima ormai da stadio, con l’intera
classe a scompisciarsi dal ridere successe l’impensabile. Il Figo lasciò cadere
il gessetto, le mani si mossero verso le labbra carnose che non riuscivano più
a nascondere la forma tipica della disperazione. Gli occhi gli si inumidirono,
la fronte perse l’elasticità perlacea per scomporsi in mille piccole rughe. Peretta
iniziò a piangere. Prima una sola, solitaria lacrima, uscita quasi per sbaglio.
Poi, come una diga che si squarcia di colpo, un fiume ininterrotto di lacrime
che iniziarono a cadere sul linoleum con dei rumorosi ‘toc’ che fecero tornare
il silenzio in aula.
- Vai al posto Peretta, lasciamo perdere.
Per il momento ti metto un due, poi magari vediamo.
Mentre il Figo riguadagnava il suo banco
cosparso di inutili suppellettili parascolastiche dal prezzo equivalente a quello
della mia macchina, mi rivolsi alla classe con l’aria bonaria di un direttore
di lager che vuole dimostrare insospettata magnanimità.
- Prendete il libro e apritelo a pagina
centocinquantadue.
Un urlo di sollievo mi giunse alle
orecchie. Feci un’ampia panoramica per godermi il momento. Tutti gli occhi
erano puntati su di me in un misto di attenzione e attesa. Tutti tranne quelli
di Peretta che fissavano il banco come se vi fosse proiettata un’immagine
ipnotica e quelli di Stefania Melanti che erano fissi su Peretta, mentre con la
mano lo stava consolando toccandogli affettuosamente il ginocchio. Avevo vinto
la battaglia ma stavo perdendo la guerra.