sabato 8 novembre 2014

Doppiogioco (racconto)

“Il cane mi ha riconosciuto”, pensò John. Ne era certo. Quella grossa salsiccia con le zampe troppo corte e gli occhi dissociati sapeva chi era. Un bulldog francese, con l’andatura sbilenca da pachiderma, l’aveva scoperto. Prese il quaderno, girò la pagina, scrisse la data e annotò: “George, il cane, sa”. Poi con la penna rossa “problema potenziale”. Richiuse il quaderno, girò i tacchi. Per oggi aveva finito. Quel suo lavoro da crotch sniffer[1], gli sarebbe forse mancato, uno dei pochi.
Da quando il Big Boss aveva fatto partire il cronometro della sua vita – circa cinquantanni prima – aveva sempre adorato le porte girevoli, assieme alle scale mobili e agli ascensori, ma soprattutto le porte girevoli. Forse quella era l’unica cosa decente dell’Hotel Continental, per il resto un condensato di tristezza e di decadenza senza pari, quasi una versione architettonica di se stesso. Il vento riuscì a dargli un’ultima sferzata, coprendolo di grosse gocce sporche, prima che il vetro rotondo lo accogliesse all’interno. Nell’altra metà della porta, quella che risputava i clienti sul marciapiede, incrociò lo sguardo di Daniel e della piccola Rachel, che continuò a spingere la porta fino a tornare dentro, mentre il nonno Daniel la stava a guardare da fuori, sotto la pioggia, con l’aria stupita e paziente di un pesce in un acquario. Rachel avrebbe continuato a girare all’infinito dentro la porta girevole, se la mano del nonno – piuttosto artritica ma all’occorrenza ancora capace di grandi prese al volo  – non l’avesse estratta con gesto di antica sapienza. Il vecchio Daniel fece un cenno del capo che lui ricambiò, mentre Rachel aveva già girato lo sguardo verso un tombino troppo pieno, attorno a cui si era formata una pozzanghera su cui galleggiavano vari tesori il cui vero valore solo lei riusciva ad apprezzare.
John si tolse l’impermeabile grigio d’ordinanza. Indossava anche un cappello a falde larghe che lo faceva assomigliare ad un fungo, sbiadito e spampanato come un gallinaccio secco.
“Buongiorno”, gli disse l’uomo della reception.
“Buongiorno” rispose, non sapendo se si trattasse di un’affermazione o di una domanda. “117” – aggiunse in fretta – anche se l’uomo sapeva perfettamente in quale room angusta e squallida stava passando le sue notti, sempre da solo, senza neanche chiedere il servizio occasionale di Greta, la prostituta istituzionale dell’Hotel Continental: anni quarantacinque, capelli alternanti tra il rosso e il nero (rispettivamente fuoco e corvino), all’anagrafe Marianne Polanski, divorziata, madre di Rachel Polanski di anni sei e figlia di Daniel Polanski, nato a Cracovia nel 5691 del calendario ebraico, approdato a New York nel 1946 di quello gregoriano, dopo un soggiorno di piacere a Treblinka, prodigio del violino a sette anni, oggi conosciuto nel quartiere come il guardiano del parcheggio.
John prese la chiave e non rispose all’invito per una conversazione casuale – neanche troppo velato a dire il vero – da parte dell’uomo della reception. Non gli piaceva quell’uomo basso e pelato, costantemente sudato, dal naso a patata e dai modi troppo affabili per essere genuini. Regola numero uno: mai fidarsi degli sconosciuti, in particolare i receptionists e i tassisti, soprattutto se sembra che siano stati disegnati da un fumettista con poca fantasia come il prototipo dell’informatore infido.
Indeciso tra l’ascensore e un craving ricorrente, optò per il secondo. Si sedette, anzi si abbandonò sulla panca che costeggiava il muro formando un angolo a novanta gradi. Regola numero due: sempre sedersi con le spalle alla parete, meglio se in un angolo: i proiettili difficilmente trapassano i muri e da quella posizione si vede everything. Appoggiò il quaderno sul tavolo, si slacciò la cintura dei pantaloni lasciando le trippe in momentanea libera uscita, protette dalla copertura psichedelica della tovaglia a fiori viola su sfondo giallo.
“Un caffé lungo, senza zucchero, con latte freddo a parte, e magari uno di quei biscotti all’amarena che avete sempre”, anticipò la ragazza, segno che aveva una buona memoria o che lui era piuttosto prevedibile.
Alzò lo sguardo su Michelle, o almeno parte di lei. Le sue pupille si appoggiarono per un tempo un po’ troppo evidente sui seni di lei, prima di raggiungere gli occhi color nocciola. Deformazione professionale quella di osservare. Delle tette così avrebbero meritato uno studio più accurato, scientifico, ma le regole della buona creanza gli imponevano una certa discrezione, anche in quel contesto.
“Esatto” rispose, ed esitò tra farle dei complimenti generici e un po’ galanti da vecchio bavoso o a dirle qualcosa di divertente e frizzante, inaspettato, che facesse trapelare il fascino incantatore di cui non disponeva. Finì per ripetere “esatto, esatto”, passandosi le dita tra collo e camicia, più pappagallo che aquila reale.
Michelle tornò dopo poco con il caffé, il milk e i biscotti. Invece di scomparire dietro al bancone come al suo solito, gli si parò davanti guardandolo e sorridendo. Quello sguardo così diretto, inaspettatto (e più che altro non sperato), ebbe il potere di bloccarlo in una postura innaturale: a metà tra il colpo della strega e una posizione di yoga venuta male. Fu Michelle a far ripartire il tempo. Tirò indietro la sedia e si accomdò di fronte a lui, con un gesto di una naturalezza devastante.
“Non le dispiace se mi siedo un attimo? Sono a fine turno”. Ma la sua non era stata una vera domanda. Si era seduta e basta. Si era anche messa in bocca uno dei suoi biscottini all’amarena e lo masticava senza sensi di colpa apparenti.
“Nessun disturbo”, rispose nascondendo a stendo il turbamento che gli causava quella brusca rivoluzione nelle sue abitudini collaudate. Erano due mesi che stava al Continetal Hotel e da due mesi prendeva la cena alle otto e ogni tanto un caffé, senza parlare con nessuno. Regola numero tre: mai mischiare lavoro e piacere, soprattutto se ci sono di mezzo due tette perfette.
“Vorrei chiederle un piacere se mi permette” continuò Michelle arrotoloandosi i capelli neri e ricci in uno chignon improvvisato e chiuso con una matita, “anche se non ci conosciamo bene, il mio sesto senso mi dice che mi posso fidare di lei”.
Regola numero quattro: quando una donna troppo bella ti fa dei complimenti, non esitare: scappa immediatamente e non guardare indietro.
“Se posso...” – rispose John inspirando aria come un uomo appena uscito da un’immersione e inarcando le spalle involontariamente quasi a voler generare un abbraccio virtuale.
“Vede, io scrivo” continuò Michelle accavallando le gambe e accennando il gesto represso di chi vorrebbe accendersi una sigaretta ma non può. “Sto facendo un corso di scrittura all’università ed ecco...” e fece una pausa. Di solito così decisa e articulated, gli parve che Michelle avesse un attimo di esitazione.
“Ed ecco?” – pensò lui, in sospeso come un pupo siciliano.
“...ed ecco, ho iniziato a scrivere un racconto. Il professore ci ha detto che dobbiamo ispirarci allo stile di un romanzo celebre e io ho scelto A portrait of the artist as a young man. Mi piacerebbe che lei lo leggesse, vorrei la sua opinione”.
E senza aspettare la sua risposta, con la stessa naturalezza con cui si era seduta poco prima, estrasse dalla borsetta di tela multicolore un quaderno identico al suo: copertina di pelle nera, con una sottile linea dorata, fina, quasi invisibile, a seguire i contorni degli angoli smussati.


La mamma della Giovanna si era arrabbiata. Aveva urlato dalla finestra e l’urlo era cattivo. La cena era già in tavola e la Giovanna doveva partire subito. Allora le ho detto OK, che andava bene, che facevamo come diceva lei. Lei mi ha sorriso, poi mi dato un pugno sul braccio, uno di quei pugni terribili che mi lasciano il segno per dei giorni, ma questa volta non mi ha fatto troppo male. Poi è partita per le scale senza salutare. Non saluta mai la Giovanna e non dice mai grazie. Ma io so che lei sta bene con me. Sennò perché verrebbe a giocare tutti i giorni a casa mia? Era ora di cena anche per me. Allora ho messo via tutti i giochi, ho smontato le rotaie e rimesso la motrice nel nylon e poi nella scatola. E’ importante mettere la motrice nel nylon, sennò prende l’umidità e poi non va più. Questo me l’ha detto il Giorgio che sa tutto sui trenini perché li vende. Il trenino me lo ha portato Babbo Natale, ma è uguale a quello che ha il Giorgio in vetrina, per cui io gli credo.
Io volevo fare una storia come nel film che ho visto la settimana scorsa, dove c’era un attore con gli occhi blu che ha un cavallo e una pistola e che uccide i nemici, anche se non si sa se lui è buono o cattivo, perché a me mi sembrava buono ma gli danno tutti la caccia come ai cattivi e poi ruba e quindi è un ladro e forse quindi è cattivo.
Ma la Giovanna, che ha due anni più di me, mi ha detto che no, quella era roba vecchia. I cowboy sono roba da bambini mi ha detto. Io le ho risposto che io ero un bambino, ma lei non mi ha ascoltato. Il trenino con gli indiani e i bisonti e i cowboy è una roba da stupidi diceva. Qui bisogna fare un’altra storia. Dobbiamo fare una storia su New York e sulle spie internazionali. Se vuoi tu puoi fare il protagonista e io la donna irresistibile
A me piacciono le storie di spie e anche fare il protagonista, anche se la Giovanna non me lo fa quasi mai fare. Allora io le ho detto che forse lei aveva ragione, ma che non avevamo niente per costruire una città e che il trenino era un trenino del Far West, tra l’altro con la motrice a vapore anche se sappiamo che in realtà va a elettricità. Avevamo anche la diligenza e un paio di indiani che mi ha regalato mio fratello, insomma quasi tutto quello che ci serviva, tranne le tende che le ho rotte l’anno scorso e la mamma le ha buttate.
Insomma ho accettato di fare come voleva lei, anche perché non c’era tempo per discutere ancora, sua mamma non scherza, veramente. E poi alla fin fine la Giovanna ha sempre ragione, ma ogni tanto voglio avere ragione anch’io. Comunque l’idea è bella. So già dove trovare uno scatolone grande ma non troppo profondo. Lo giriamo e lo mettiamo sopra al trenino. Poi basta fare dei buchi sul piano per le fermate e abbiamo già la metropolitana. Per i grattacieli, perché New York è piena di grattacieli, non ci ho ancora ben pensato, ma forse li possiamo costruire usando le scatole delle scarpe, oppure con i Lego, anche se la Giovanna odia i Lego, non ho ancora capito perché. L’albergo ce l’ho già. Prima di andare a letto ritaglio la scritta Hotel Continental dalla scatola della cuffia per la doccia che usa la mamma e poi la incollo su uno di quelle borracce di plastica che usava mio fratello quando giocava a calcio. Poi taglio un bicchiere di plastica in verticale per fare una porta girevole. Gli alberghi mi sembra che hanno tutti o le porte girevoli o le porte automatiche.
Per la storia non so bene, ma pensavo che uno dei personaggi poteva essere la mia compagna Rachele, quella che non può mangiare i toast al prosciutto e formaggio, anche se non è allergica, perché sennò suo papà si arrabbia. E poi magari il bidello Daniele, che mi sta molto simpatico perché mi fa gli scherzi, ma non sono cattivi, sono scherzi buoni che mi fanno ridere, anche se ha l’aria sempre un po’ seria. E poi magari la Greta, quella del negozio degli alimentari, tutta rotonda come un bigné, che mi regala le caramelle di nascosto, anche se la mamma poi me le prende e non me le ridà perché dice che fanno male.  Pensavo anche allo zio Mario, che però non mi sta molto simpatico perché mi chiede sempre se ho la fidanzata e mi fa pochi regali.
Comunque devo aspettare la Giovanna. Tanto ogni volta che ho un’idea dice di no, anche se a volte prima dice di no e poi alla sua idea aggiunge la mia, o almeno una parte, ma lei non vuole ammetterlo e io smetto di dirglielo, perché tanto so che è vero, e forse anche lei, ma non serve a niente arrabbiarsi se abbiamo tutti e due ragione. E poi le storie che fa la Giovanna sono veramente belle, c’è sempre qualcosa di strano, ma anche bello e non si sa mai come vanno a finire.


John era seduto sul letto disfatto, lo sguardo fisso sul termosifone spento, stava aspettando una fine che stranamente tardava a venire. Vent’anni prima non ci sarebbe stata attesa, evidente segno che l’Agenzia stava diventando un labirinto di burocrazia. Ormai bisognava chiedere il permesso anche per andare al cesso. Infine, quasi rispondendo alle sue suppliche, suonò il telefono. John non rispose, lo lasciò intonare l’inno nazionale cinque volte prima che abdicasse. Ma poi riprese immediatamente. Altri cinque inni e poi altri cinque ed altri cinque, un vero hangover di nazionalismo. Dall’Agenzia non demordevano. Si decise a rispondere.
“Ma che cazzo combini? E perché non rispondi al telefono?”
“Ero al cesso”, mentì John.
“E a me checcazzo me ne frega. Se devi cagare portati dietro il cellulare”.
“OK Capo, prendo nota”.
“E smettila di prendere per il culo testa di cazzo! Ma ti rendi conto di cos’hai combinato?
Le domande retoriche erano la grande specialità del Capo, alias Joseph K. Conrad, esperto di esoterismo e di controllo delle anime, grande cavalcatore del lato oscuro della forza, modesto giocatore di golf e pessimo giocatore di poker, oltre che vice-direttore dell’Agenzia. Da quando John aveva memoria, era sempre rimasto allo stesso posto, con ogni cambio di stagione, con il bello e il cattivo tempo, come il nero che sta bene con tutto. Eppure era sempre rimasto vice di qualcuno, necessario ma non sufficiente.
“Riassumiamo”.
E i riassunti erano la sua passione personale, a cui associava una memoria di ferro, dettagliatissima, proverbiale e inversamente proporzionale alla sua intelligenza.
“Ti dò l’incarico che potrebbe ricoprire un qualsiasi poliziotto di quartiere, praticamente anche un cretino pescato a caso nell’oceano atlantico dei cretini”.
“Sì”, John non trovò altro da dire, si trattava di un’evidenza.
“Insomma ti mandiamo ad annusare la passera della moglie del più grande oligarca dello Strombokistan, per ricattarla e costringerla a lavorare come informatrice per noi. La cosa non è difficile perché quella scopa più di una donna delle pulizie”.
Amante delle barzellette, meglio se sporche o razziste, sfortunatamente per lui il suo originale senso dell’umorismo non era giustamente apprezzato nell’ambiente, tranne che dai suoi fedelissimi yesmen.
“E tu ti nascondi per bene, la segui dappertutto, prendi nota, ti preoccupi pure che quel cane del cazzo che sembra una salsiccia ti abbia scoperto. E cosa fai?”
Cosa faccio? – pensò John quasi distrattamente. Aveva la riposta a quella domanda. Guardò la stanza squallida di quell’albergo di terza categoria. Chi l’avesse visto lo avrebbe trovato un bruco insignificante nel cuore della Grande Mela Marcia.
“Tu ti fai scambiare l’agenda con tutta l’informazione da un’agente sotto copertura, probabilmente russa, che la starà già utilizzando. Una cosa da B-movie degli anni settanta, cazzo! Ma non è tutto”.
Effettivamente non era tutto. Mancava la ciliegina sulla torta.
“Visto che sei nato nella preistoria, hai fatto la scuola con i dinosauri e hai visto il primo computer che eri già sposato e divorziato, continui a utilizzare gli appunti di carta e per di più sempre sull’agenda delle tre missioni precedenti. Il che include, se non mi sbaglio...”.
John escluse che potesse sbagliarsi. Il Capo non ometteva il minimo dettaglio quando era ora di cazziare.
“...se non sbaglio ripeto, tutti gli elementi chiave dell’operazione Pokemon, l’identità degli informatori Pantera Rosa e Paperino, oltre a tutti i codici criptati dell’operazione Lady Oscar, ovvero quanto ci sia di più sensibile per il nostro governo allo stato attuale. Ho dimenticato qualcosa?”
Non aveva dimenticato niente. E per una volta aveva anche ragione quello stronzo presuntuoso e volgare. La propria posizione era indifendibile, un condannato a morte attaccato al lettino dell’iniziezione letale, dopo che l’ultimo appello è stato respinto dalla Corte Suprema.
“Però il racconto che mi ha lasciato è proprio bello”, aggiunse John.
“Che racconto, di cosa stai parlando?”
“Nell’agenda che ha scambiato con la mia, quella uguale alla mia, c’era effettivamente un racconto. L’ho letto, a me piace, è ispirato ad un romanzo di James Joyce. E’ forse anche un po’ autobiografico, mi ricorda un po’ la mia infanzia. Mi chiedo se l’abbia scritto veramente lei oppure abbiano reclutato un writer. Anch’io giocavo con i trenini e avevo un’amica del cuore”.
“Sei licenziato”.
“Lo so”.
Il Capo riattaccò, John si distese sul letto, osservando l’immobilità assoluta del ventilatore che pendeva arrugginito dal soffitto. Un ventilatore che avrebbe potuto attivare con un semplice gesto della mano. L’interruttore era posizionato a fianco al comodino, facilmente raggiungibile. Spesso la differenza tra vivere o morire, vincere o perdere, sta in un gesto semplice, quotidiano. E prima ancora che nel gesto, sta nella decisione di fare quel gesto. Ma rompere l’immobilità è quanto di più rivoluzionario ci sia per un soggetto della specie homo sapiens sapiens.
Bussarono alla porta. John la aprì senza guardare chi fosse. Entrò il vecchio Daniel che prese la poltrona e si sedette di fronte al letto appoggiandosi con lentezza allo schienale.
“Allora?”, chiese Daniel.
“Tutto bene”, sispose John.
“Sei sicuro?”
Positive. Pensa che io sia un rincoglionito che ha fatto la cazzata al bordo della pensione. Sono mesi che gli ho instillato questo dubbio”.
“Veramente sicuro?”
John si limitò a osservarsi scrupolosamente le unghie curatissime e non aggiunse altro.
“Se lo dici tu ci credo”, aggiunse il vecchio quasi per scusarsi, poi continuò con tono professionale, “I soldi sono sul conto, i codici d’accesso li hai già, cambiali nelle prossime 72 ore.
“Già fatto”.
“Perfetto”, il vecchio fece una piccola pausa quasi a controllare la check-list che aveva memorizzato, poi aprì la cartella di pelle che aveva con sé. “Ecco il biglietto con partenza da Mexico City, queste sono le chiavi della macchina, il serbatoio è pieno. Qui ci sono un paio di passaporti se ne dovessi avere bisogno, un bonus in caso ti vengano a cercare, decisione della ragazza, l’ho già ringraziata da parte tua”.
John prese i passaporti, li osservò controluce, passò le dita sulle pagine vuote e su quelle con alcuni timbri. Era un lavoro ben fatto, perfettamente identici agli originali, molto credibili.
“Quasi dimenticavo”, aggiunse il vecchio quasi imbarazzato, “la ragazza ti fa i complimenti. Dice che non ha mai visto qualcosa del genere, un attore geniale ha detto, really”.
John non accennò una risposta, non fece un gesto. Per essere naturali è necessario credere quello si deve essere. Non basta pensare di essere qualcuno, ma bisogna diventarlo, carne ossa, certificato medico e abbonamento della metropolitana. Gli attori fanno finta, terminata la scena si struccano e tornano a casa. Le spie diventano colui che devono impersonare, non entrano nei suoi panni, ma direttamente nella sua pelle. Devono essere così credibili da ingannare il narratore in persona.
“OK, allora io vado”, fece Daniel appoggiando le mani sui braccioli per aiutarsi ad alzarsi.
“Come l’avete preso?”, aggiunse John senza pramboli, come se l’altro sapesse di cosa stesse parlando.
“Lo sai come l’abbiamo preso”.
“Allora, se vuoi dirmelo, come l’avete trovato? Come siete arrivati a Buenos Aires, via Garibaldi, l’11 Maggio 1960?”
Daniel esitò quel secondo di troppo che non gli permise di negare o di trovare una scusa generica. Erano decenni che non ne parlava con qualcuno. Il suo fu il silenzio di una memoria caduta nell’oblio.
“Il figlio”, aggiunse infine, “Eichmann junior parlava troppo. Se vuoi un consiglio, stai lontano dalla tua famiglia, non avere contatti con gli amici, cancella il tuo passato”.
John annuì, il vecchio gli tese la mano. Non sapeva quale fosse la ragione che l’avesse spinto a vendersi, ma non era lì per scoprirlo. Quando aveva la mano già sulla maniglia della porta John gli chiese:
“Chi ha scritto il racconto? Quello nel quaderno”.
“La ragazza credo. E’ lei che ha creato l’operazione e vuole sempre decidere su tutto”.
“Mi è piaciuto. Se la vedi dille che il racconto era davvero bello”.
Il vecchio Daniel fece un segno con il capo, uscì lento e richiuse la porta dietro di sé senza fare rumore.




[1] Annusapatte.

L'Orco (racconto)


Sto bene. Un tepore caldo, come un fluido che mi scorre sottopelle, segue le linee ramificate del mio corpo. Sono avvolto in una nuvola di cotone, i piedi, le mani, le spalle, la testa. Il bianco mi abbraccia e mi dondola. E’ la mamma che mi osserva dall’alto, che fa dondolare la culla con gesti leggeri. Mi sta sussurrando parole dolci nell’orecchio. Mi sta accarezzando dolcemente la testa pelata. Mi solletica i piedi. Non c’è rumore qui, tutto tace, il silenzio del benessere assoluto. Solo una luce diffusa, omogenea, che non genera ombra, schermata. Mi giro su un lato. Ho un’intensa voglia di addormentarmi, di entrare con tutto il corpo nel sonno di questo bianco e di questa luce, ritrovare il grembo materno, appallottolarmi in posizione fetale, riattaccare il cordone ombelicale, immergermi nel liquido amniotico, dormire succhiandomi il pollice. Sento qualcosa – forse un leggero rumore che spezza il silenzio – ma non viene da fuori, è il rumore della mia mente che vuole dirmi qualcosa. Ma cosa? Non voglio rumori. Voglio silenzio e pace, una mente che non parla, la cessazione di tutto. Forse è una voce, ma non riesco a distinguere le parole. Non mi importa. Niente mi importa, tranne il caldo abbraccio in cui mi trovo in questo momento. Non ascolto la voce, la confino nel bagnomaria del mio inconscio, a sciogliersi lentamente nel tepore che mi avvolge. Chiudo gli occhi, ma la luce rimane. Li riapro e la luce è sempre lì. Aperti o chiusi, gli occhi non mi servono più. Le palpebre sono gli unici muscoli che funzionano ancora, ma potrebbero anche cessare di farlo. Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me.

Quando gli aveva detto che voleva scalare la parete nord dell’Eiger in solitaria, il Gepi aveva emesso un rantolo sordo, come se il vecchio cirrotico volesse raschiare tutto il catarro dal fondo dei suoi bronchi e poi sputarlo a terra, più denso del catrame. Ma non sputò come il suo solito, né gli uscì un filo di bava a sporcargli il maglione marrone. Si limitò a piantargli lo sguardo vacuo a metà tra il naso e lo sterno e a sibilare: Tu vuoi morire. Poi riappoggiò la testa alla spalliera della sedia a rotelle con il gesto di una tartaruga esausta. Per quanto ormai ridotto ad un rudere umano, incapace di camminare e mezzo cieco, che carburava a Prosecco fin dalle otto di mattina, il Gepi rimaneva un’istituzione per gli alpinisti della zona, una specie di oracolo di Delfi a cui rivolgersi prima di un’impresa. Ormai da tempo aveva smesso di dare consigli veramente utili, un po’ perché il cervello era in costante salamoia alcolica, un po’ perché la tecnica e il materiale erano cambiati così tanto che la montagna non era più la stessa. Quando il Gepi parlava di un sesto grado come se fosse la bocca di Polifemo, i più giovani si sganasciavano dalle risate. Erano quelli nati con i calli sulle mani, cresciuti a micro, meso e macro-cicli, tecnicamente superdotati, fisicamente imbattibili, che il sesto grado lo facevano con una mano sola, in totale sicurezza, con scarpette superaderendi da ballerina verticale; non certo con gli scarponi di pelle, i chiodi piantati a mano e le corde di canapa. Cagasotto li chiamava il Gepi nei momenti di lucidità, sempre più rari e sempre più corti.
Lui non era un cagasotto. Lui era un alpinista come ce n’erano una volta: solido, ostinato, taciturno. Non faceva diete speciali, non si allenava in palestra, non faceva bouldering, non usava finger boards. A dire la verità lui non era neanche un vero alpinista. Lui era semplicemente un montanaro, nato in montagna, cresciuto in montagna. Uno che in valle iniziava a tossire, che in pianura soffocava. Dal Gepi c’era andato per tradizione, come si compra il panettone a Natale, senza pensarci su. Normalmente il vecchio alzava le spalle senza capire, oppure borbottava una frase qualsiasi  del tipo atento ai sarachi,  oppure fa un fredo del’ostrega, coprete bén. Quel Tu vuoi morire l’aveva un po’ stupito. Non rientrava nello stile del Gepi fare premonizioni drammatiche. Probabilmente l’aveva confuso con uno dei cagasotto o si era dimenticato che aveva già scalato la nord delle Grandes Jorasses e del Cervino, d’inverno e in solitaria. All’epoca ne aveva parlato anche un giornale locale con un articolo enfatico e sgrammaticato, incastonato tra l’annuncio della sagra della lepre e un articolo sull’innaugurazione della nuova circonvallazione. Ma il Gepi non leggeva giornali, il Gepi probabilmente non sapeva neanche leggere.
Insomma, non ci fece caso e non ne parlò con nessuno. Il vantaggio della scalata in solitaria è che devi comunicare solo con te stesso, non hai la responsabilità di nessuno all’altro capo della corda; anzi la corda proprio non ce l’hai, se non arrotolata nel fondo dello zaino. La preparazione era stata rapida: poco peso vuol dire poco materiale, praticamente niente cibo, una borraccia d’acqua. In tutto si era portato dietro un chiodo da ghiaccio, quattro moschettoni e un rinvio. Il piano era di scalare la nord in giornata, non c’era bisogno di altro. Comprò il biglietto per Interlaken e dovette ripetere il nome tre volte al ferroviere attraverso il piccolo pertugio del vetro blindato dietro cui si proteggeva da chissà quali pericoli. Abbandonò il porto sicuro delle montagne per affrontare il mare aperto della pianura, passando per la tempesta immobile della città mostruosa, quella Milano da bere che puzzava di carogna ancora prima di morire. Se la lasciò alle spalle con un brivido, aspettando che passasse il lago alla sua destra, Como e Chiasso, il puttaniere a cielo aperto di Lugano, poi di nuovo a casa, di nuovo montagne. Ad Interlaken comprò il biglietto per Kleine Scheidegg. Non dovette ripetere il nome questa volta. Il ferroviere non lo guardò neanche in faccia. Osservava il suo zaino, i suoi vestiti, gli scarponi rigidi di chi usa i ramponi da ghiaccio. Kleine Schhadegg non poteva che essere l’unica destinazione per un signor nessuno in cerca dell’orco[1].

Ti svegli all’alba, il cielo è viola di sonno, solo qualche stella sopravvive all’incedere del sole. Tra poco la lampada frontale non ti servirà più. Te la potrai togliere assieme al berretto di lana e alla giacca. Tu hai sempre freddo la mattina. Sai che ti scalderai in pochi minuti, ma preferisci coprirti, iniziare a sudare, sentire il calore della pelle sulla pelle. Bella giornata pensi. Non c’è una nuvola in cielo. Le previsioni sono ottime, non ci sono rompicoglioni in giro. C’è sempre qualche cordata rumorosa a rompere l’incanto della montagna. Gente che urla sosta!, corda!, blocca! oppure Stand!, Seil!, zu!. Oggi nessuno, sono tutti rimasti in valle a mangiare fondue e a bere il vino troppo bianco, troppo acido e troppo caro del Vallese. Siamo rimasti in due: tu ed io. Ti rimetti in moto. Da giù qualcuno ti starà guardando con un binocolo, sperando in un passo falso, di vederti cadere in diretta per la parete quasi verticale di roccia e ghiaccio. Non ci fai caso ai topi di valle, sono un’altra specie, quasi peggio dei topi di città. Continui a salire. Non fai fatica. Segui la tua respirazione regolare con movimenti gravi di metronomo. Guardi dove vuoi mettere le mani, sposti i piedi, inizi il movimento con le gambe, afferri la presa con la mano, poi trovi subito l’equilibrio. Standardbewegung si chiama in tedesco. Per te non è una tecnica di arrampicata, ma il modo in cui hai sempre vissuto. In questo momento c’è un sottile strato d’aria tra te e la roccia, ma tu ti senti di roccia, non percepisci la distinzione fisica e biologica tra il tuo corpo e la parete. Siete due entità fatte della stessa materia, di cui una si muove sopra all’altra.
Non sai quanto hai arrampicato perché non hai l’altimetro. Sai solo che sei partito a poco più di 2000 metri e che la cima è a 3970. Ma per te i numeri non sono niente, non servono a descrivere una parete, una montagna o una vita. Neanche le parole servono a molto; quelle giuste non sono ancora state inventate, le altre vengono usate a sproposito. Solo i cognomi ti dicono qualcosa. Hinterstoisser ti sta parlando in questo momento. E’ morto da quasi ottant’anni, ma lo ritrovi lì di fronte a te, nella stessa posizione in cui ti trovi adesso. E’ stato il primo ad attaccare la traversa che porta il suo nome e la traversa è ancora lì, ti sta aspettando. Tu adesso sei Hinterstoisser. I tuoi piedi sono i suoi piedi, le tue mani sono le sue mani. In cento anni non è cambiato il modo di affrontare una traversa: mano, piede, mano, piede, senza perdere l’equilibrio, senza cadere nel vuoto, senza paura e senza pensare. Soprattutto senza pensare. Guardi il cielo, si è imbiancato di strisce di aerei, c’è umidità, ma il sole si vede ancora, il tempo tiene. Saluti Hinterstoisser e continui a salire. L’Eiger ha una sola direzione, non si torna indietro.
Perché hai freddo d’improvviso? Ti sei arrampicato con regolarità, non hai strafatto, sei in forma. Eppure hai freddo, un lungo brivido umido ti scorre longitudinalmente ai due lati della spina dorsale. Vento. Viene da nord. La parete è esposta a nord. Ti rimetti la giacca. Continui a salire. Ti chiedi se i topi lì in basso ti stiano ancora guardando con il cannocchiale o se abbiano iniziato a fare colazione con formaggio e Birchermuesli, bevendo caffé fumante, magari giocando a Jass. Tu non hai fame, non hai sete, hai solo un po’ di freddo.
Non si vede più il sole. Una nuvola grigia l’ha coperto. Il vento ora soffia con forza. A volte stenti a trovare l’equilibrio, l’aria ti risucchia verso il vuoto, le mani si stringono troppo forte su una roccia troppo fredda. Sai che non bisogna stringere le prese. Chi stringe troppo perde energia, chi perde energia si stanca, chi si stanca non va più avanti. Vorresti rilasciare la presa, ma le tue dita sono intorpidite dal freddo e l’insensibilità ti impedisce di sapere quando la presa è troppo stretta o troppo molla. Troppo molla vuol dire precipizio. Il tuo respiro si fa affannoso, perdi regolarità. Sei costretto a fermarti e riprendere fiato. Ma il problema non è il freddo, né l’affanno. Il problema è che hai iniziato a pensare. Non sono pensieri compiuti, logici, lineari. Pensi a parole sconclusionate a frasi storte: torta di mele, meglio soli che al mare, non tirare la corda che costa cara, freddo cane, vorrei un cane. Pensi soprattutto al vecio e al suo Tu vuoi morire, così stonato, così brutale. La tua mente ripete Tu vuoi morire dieci, venti, trenta volte. Non puoi fermarla, o forse non vuoi. La lasci correre e ad ogni passo lei ti ripete lo stesso mantra: Tu vuoi morire, tu vuoi morire, tu vuoi morire. Vorresti mettere della cera nelle orecchie, per non sentire più, ma la voce – lo sai bene – non viene da fuori. Le sirene ti parlano da dentro la tua pelle, da dentro la tua carne. Sei tu stesso la sirena che ti vuole morto.
Fa ancora più freddo. Il vento spazza la montagna con la furia di una scopa di saggina e tu in lì in mezzo non sei altro che un granello di sabbia umana aggrappato alla roccia. Tremolii. Prima i polpacci, poi le cosce, ora anche le braccia e le mani. Il freddo ti scuote dal di dentro, ti oscura la vista più che le nuvole portate dal vento. Ora sei più cieco di Polifemo, più solo di Ulisse. Non riesci a vedere veramente più nulla, tranne un mare bianco senza onde. Sai solo che devi andare in su, ma non sai più dove sei. Non avrai preso la crepa sbagliata, quella che finisce in un pezzo di granito strapiombante che non riuscirai ad affrontare da solo? Non lo sai. Avere dei dubbi è peggio che pensare, è peggio che avere paura. Fai l’unica cosa che puoi fare: andare avanti.
Inizia a nevicare. Prima dei piccoli fiocchi timidi che il vento ti sputa in faccia quasi per dispetto, poi dei grossi fiocchi che si attaccano alla giacca, ai pantaloni, ai capelli e ti coprono come una seconda pelle gelata e ostile. In breve sei bianco come Babbo Natale, ma senza le renne e senza regali. Adesso non hai altra scelta. Non puoi fare altro che fermarti. Trovi un piccolo spiazzo in cui accucciarti. E’ sufficientemente comodo per starci in due: tu e te stesso. Sai anche come si chiama quello spiazzo. Ci sono arrivati Karl Mehringer and Max Sedlmeye nel 1935 e non sono più ripartiti. Ti sei rifugiato nel bivacco della morte sperando di sopravvivere. Sai che la tua vita dipende da uno di quei topi di valle, dal loro cellulare e da un pilota coraggioso che accetti di avvicinare il suo elicottero alla parete nel mezzo della bufera. Oppure un miracolo che spazzi via le nuvole e riporti il sereno. Miracolo appunto. Fai l’unica cosa che puoi fare: rabbrividisci di un freddo bastardo che non ti dà tregua ed ogni tremito è più forte di quello precedente, ogni minuto che passa più gelido di quello precedente. Inizi a pensare seriamente che è finita e forse – questa volta – hai anche ragione.

Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me. Sto bene, fa caldo adesso. E’ tutto bianco. Questo bianco è la felicità. Il rumore è sempre lì. E’ la voce della mia coscienza? Oppure sono le pale di un elicottero che taglia l’aria con ferocia per venire a salvarmi? Apro gli occhi. Li richiudo. E’ tutto bianco. Forse stanno venendo a prendermi. Forse rimarrò su questo spuntone di roccia per sempre. Comunque vada, va tutto bene.






[1] Eiger vuol dire orco in Tedesco.