“Il cane mi ha riconosciuto”, pensò
John. Ne era certo. Quella grossa salsiccia con le zampe troppo corte e gli
occhi dissociati sapeva chi era. Un bulldog francese, con l’andatura sbilenca
da pachiderma, l’aveva scoperto. Prese il quaderno, girò la pagina, scrisse la
data e annotò: “George, il cane, sa”. Poi con la penna rossa “problema
potenziale”. Richiuse il quaderno, girò i tacchi. Per oggi aveva finito. Quel
suo lavoro da crotch sniffer[1],
gli sarebbe forse mancato, uno dei pochi.
Da quando il Big Boss aveva fatto partire il cronometro della sua vita – circa
cinquantanni prima – aveva sempre adorato le porte girevoli, assieme alle scale
mobili e agli ascensori, ma soprattutto le porte girevoli. Forse quella era
l’unica cosa decente dell’Hotel Continental, per il resto un condensato di
tristezza e di decadenza senza pari, quasi una versione architettonica di se
stesso. Il vento riuscì a dargli un’ultima sferzata, coprendolo di grosse gocce
sporche, prima che il vetro rotondo lo accogliesse all’interno. Nell’altra metà
della porta, quella che risputava i clienti sul marciapiede, incrociò lo
sguardo di Daniel e della piccola Rachel, che continuò a spingere la porta fino
a tornare dentro, mentre il nonno Daniel la stava a guardare da fuori, sotto la
pioggia, con l’aria stupita e paziente di un pesce in un acquario. Rachel
avrebbe continuato a girare all’infinito dentro la porta girevole, se la mano
del nonno – piuttosto artritica ma all’occorrenza ancora capace di grandi prese
al volo – non l’avesse estratta con
gesto di antica sapienza. Il vecchio Daniel fece un cenno del capo che lui
ricambiò, mentre Rachel aveva già girato lo sguardo verso un tombino troppo
pieno, attorno a cui si era formata una pozzanghera su cui galleggiavano vari
tesori il cui vero valore solo lei riusciva ad apprezzare.
John si tolse l’impermeabile grigio
d’ordinanza. Indossava anche un cappello a falde larghe che lo faceva
assomigliare ad un fungo, sbiadito e spampanato come un gallinaccio secco.
“Buongiorno”, gli disse l’uomo
della reception.
“Buongiorno” rispose, non sapendo
se si trattasse di un’affermazione o di una domanda. “117” – aggiunse in fretta
– anche se l’uomo sapeva perfettamente in quale room angusta e squallida stava passando le sue notti, sempre da
solo, senza neanche chiedere il servizio occasionale di Greta, la prostituta
istituzionale dell’Hotel Continental: anni quarantacinque, capelli alternanti
tra il rosso e il nero (rispettivamente fuoco e corvino), all’anagrafe Marianne
Polanski, divorziata, madre di Rachel Polanski di anni sei e figlia di Daniel
Polanski, nato a Cracovia nel 5691 del calendario ebraico, approdato a New York
nel 1946 di quello gregoriano, dopo un soggiorno di piacere a Treblinka,
prodigio del violino a sette anni, oggi conosciuto nel quartiere come il
guardiano del parcheggio.
John prese la chiave e non rispose
all’invito per una conversazione casuale – neanche troppo velato a dire il vero
– da parte dell’uomo della reception. Non gli piaceva quell’uomo basso e
pelato, costantemente sudato, dal naso a patata e dai modi troppo affabili per
essere genuini. Regola numero uno: mai fidarsi degli sconosciuti, in particolare
i receptionists e i tassisti, soprattutto se sembra che siano stati disegnati da
un fumettista con poca fantasia come il prototipo dell’informatore infido.
Indeciso tra l’ascensore e un craving ricorrente, optò per il secondo.
Si sedette, anzi si abbandonò sulla panca che costeggiava il muro formando un
angolo a novanta gradi. Regola numero due: sempre sedersi con le spalle alla
parete, meglio se in un angolo: i proiettili difficilmente trapassano i muri e da
quella posizione si vede everything.
Appoggiò il quaderno sul tavolo, si slacciò la cintura dei pantaloni lasciando
le trippe in momentanea libera uscita, protette dalla copertura psichedelica
della tovaglia a fiori viola su sfondo giallo.
“Un caffé lungo, senza zucchero,
con latte freddo a parte, e magari uno di quei biscotti all’amarena che avete
sempre”, anticipò la ragazza, segno che aveva una buona memoria o che lui era
piuttosto prevedibile.
Alzò lo sguardo su Michelle, o
almeno parte di lei. Le sue pupille si appoggiarono per un tempo un po’ troppo
evidente sui seni di lei, prima di raggiungere gli occhi color nocciola. Deformazione
professionale quella di osservare. Delle tette così avrebbero meritato uno
studio più accurato, scientifico, ma le regole della buona creanza gli
imponevano una certa discrezione, anche in quel contesto.
“Esatto” rispose, ed esitò tra
farle dei complimenti generici e un po’ galanti da vecchio bavoso o a dirle
qualcosa di divertente e frizzante, inaspettato, che facesse trapelare il
fascino incantatore di cui non disponeva. Finì per ripetere “esatto, esatto”,
passandosi le dita tra collo e camicia, più pappagallo che aquila reale.
Michelle tornò dopo poco con il
caffé, il milk e i biscotti. Invece
di scomparire dietro al bancone come al suo solito, gli si parò davanti
guardandolo e sorridendo. Quello sguardo così diretto, inaspettatto (e più che
altro non sperato), ebbe il potere di bloccarlo in una postura innaturale: a
metà tra il colpo della strega e una posizione di yoga venuta male. Fu Michelle
a far ripartire il tempo. Tirò indietro la sedia e si accomdò di fronte a lui,
con un gesto di una naturalezza devastante.
“Non le dispiace se mi siedo un
attimo? Sono a fine turno”. Ma la sua non era stata una vera domanda. Si era
seduta e basta. Si era anche messa in bocca uno dei suoi biscottini all’amarena
e lo masticava senza sensi di colpa apparenti.
“Nessun disturbo”, rispose nascondendo
a stendo il turbamento che gli causava quella brusca rivoluzione nelle sue
abitudini collaudate. Erano due mesi che stava al Continetal Hotel e da due
mesi prendeva la cena alle otto e ogni tanto un caffé, senza parlare con
nessuno. Regola numero tre: mai mischiare lavoro e piacere, soprattutto se ci
sono di mezzo due tette perfette.
“Vorrei chiederle un piacere se mi
permette” continuò Michelle arrotoloandosi i capelli neri e ricci in uno
chignon improvvisato e chiuso con una matita, “anche se non ci conosciamo bene,
il mio sesto senso mi dice che mi posso fidare di lei”.
Regola numero quattro: quando una
donna troppo bella ti fa dei complimenti, non esitare: scappa immediatamente e
non guardare indietro.
“Se posso...” – rispose John
inspirando aria come un uomo appena uscito da un’immersione e inarcando le
spalle involontariamente quasi a voler generare un abbraccio virtuale.
“Vede, io scrivo” continuò Michelle
accavallando le gambe e accennando il gesto represso di chi vorrebbe accendersi
una sigaretta ma non può. “Sto facendo un corso di scrittura all’università ed
ecco...” e fece una pausa. Di solito così decisa e articulated, gli parve che Michelle avesse un attimo di esitazione.
“Ed ecco?” – pensò lui, in sospeso
come un pupo siciliano.
“...ed ecco, ho iniziato a scrivere
un racconto. Il professore ci ha detto che dobbiamo ispirarci allo stile di un
romanzo celebre e io ho scelto A portrait
of the artist as a young man. Mi piacerebbe che lei lo leggesse, vorrei la
sua opinione”.
E senza aspettare la sua risposta, con
la stessa naturalezza con cui si era seduta poco prima, estrasse dalla borsetta
di tela multicolore un quaderno identico al suo: copertina di pelle nera, con
una sottile linea dorata, fina, quasi invisibile, a seguire i contorni degli
angoli smussati.
La mamma della Giovanna si era
arrabbiata. Aveva urlato dalla finestra e l’urlo era cattivo. La cena era già
in tavola e la Giovanna doveva partire subito. Allora le ho detto OK, che
andava bene, che facevamo come diceva lei. Lei mi ha sorriso, poi mi dato un
pugno sul braccio, uno di quei pugni terribili che mi lasciano il segno per dei
giorni, ma questa volta non mi ha fatto troppo male. Poi è partita per le scale
senza salutare. Non saluta mai la Giovanna e non dice mai grazie. Ma io so che
lei sta bene con me. Sennò perché verrebbe a giocare tutti i giorni a casa mia?
Era ora di cena anche per me. Allora ho messo via tutti i giochi, ho smontato
le rotaie e rimesso la motrice nel nylon e poi nella scatola. E’ importante
mettere la motrice nel nylon, sennò prende l’umidità e poi non va più. Questo
me l’ha detto il Giorgio che sa tutto sui trenini perché li vende. Il trenino
me lo ha portato Babbo Natale, ma è uguale a quello che ha il Giorgio in
vetrina, per cui io gli credo.
Io volevo fare una storia come nel
film che ho visto la settimana scorsa, dove c’era un attore con gli occhi blu
che ha un cavallo e una pistola e che uccide i nemici, anche se non si sa se
lui è buono o cattivo, perché a me mi sembrava buono ma gli danno tutti la
caccia come ai cattivi e poi ruba e quindi è un ladro e forse quindi è cattivo.
Ma la Giovanna, che ha due anni più
di me, mi ha detto che no, quella era roba vecchia. I cowboy sono roba da bambini mi ha detto. Io le ho risposto che io
ero un bambino, ma lei non mi ha ascoltato. Il trenino con gli indiani e i
bisonti e i cowboy è una roba da
stupidi diceva. Qui bisogna fare un’altra storia. Dobbiamo fare una storia su
New York e sulle spie internazionali. Se vuoi tu puoi fare il protagonista e io
la donna irresistibile
A me piacciono le storie di spie e
anche fare il protagonista, anche se la Giovanna non me lo fa quasi mai fare. Allora
io le ho detto che forse lei aveva ragione, ma che non avevamo niente per
costruire una città e che il trenino era un trenino del Far West, tra l’altro con la motrice a vapore anche se sappiamo che
in realtà va a elettricità. Avevamo anche la diligenza e un paio di indiani che
mi ha regalato mio fratello, insomma quasi tutto quello che ci serviva, tranne
le tende che le ho rotte l’anno scorso e la mamma le ha buttate.
Insomma ho accettato di fare come
voleva lei, anche perché non c’era tempo per discutere ancora, sua mamma non
scherza, veramente. E poi alla fin fine la Giovanna ha sempre ragione, ma ogni
tanto voglio avere ragione anch’io. Comunque l’idea è bella. So già dove
trovare uno scatolone grande ma non troppo profondo. Lo giriamo e lo mettiamo
sopra al trenino. Poi basta fare dei buchi sul piano per le fermate e abbiamo
già la metropolitana. Per i grattacieli, perché New York è piena di
grattacieli, non ci ho ancora ben pensato, ma forse li possiamo costruire
usando le scatole delle scarpe, oppure con i Lego, anche se la Giovanna odia i
Lego, non ho ancora capito perché. L’albergo ce l’ho già. Prima di andare a
letto ritaglio la scritta Hotel Continental dalla scatola della cuffia per la
doccia che usa la mamma e poi la incollo su uno di quelle borracce di plastica
che usava mio fratello quando giocava a calcio. Poi taglio un bicchiere di
plastica in verticale per fare una porta girevole. Gli alberghi mi sembra che hanno
tutti o le porte girevoli o le porte automatiche.
Per la storia non so bene, ma
pensavo che uno dei personaggi poteva essere la mia compagna Rachele, quella
che non può mangiare i toast al prosciutto e formaggio, anche se non è
allergica, perché sennò suo papà si arrabbia. E poi magari il bidello Daniele,
che mi sta molto simpatico perché mi fa gli scherzi, ma non sono cattivi, sono
scherzi buoni che mi fanno ridere, anche se ha l’aria sempre un po’ seria. E
poi magari la Greta, quella del negozio degli alimentari, tutta rotonda come un
bigné, che mi regala le caramelle di nascosto, anche se la mamma poi me le
prende e non me le ridà perché dice che fanno male. Pensavo anche allo zio Mario, che però non mi
sta molto simpatico perché mi chiede sempre se ho la fidanzata e mi fa pochi
regali.
Comunque devo aspettare la
Giovanna. Tanto ogni volta che ho un’idea dice di no, anche se a volte prima
dice di no e poi alla sua idea aggiunge la mia, o almeno una parte, ma lei non
vuole ammetterlo e io smetto di dirglielo, perché tanto so che è vero, e forse
anche lei, ma non serve a niente arrabbiarsi se abbiamo tutti e due ragione. E
poi le storie che fa la Giovanna sono veramente belle, c’è sempre qualcosa di
strano, ma anche bello e non si sa mai come vanno a finire.
John era seduto sul letto disfatto,
lo sguardo fisso sul termosifone spento, stava aspettando una fine che
stranamente tardava a venire. Vent’anni prima non ci sarebbe stata attesa, evidente
segno che l’Agenzia stava diventando un labirinto di burocrazia. Ormai
bisognava chiedere il permesso anche per andare al cesso. Infine, quasi
rispondendo alle sue suppliche, suonò il telefono. John non rispose, lo lasciò
intonare l’inno nazionale cinque volte prima che abdicasse. Ma poi riprese
immediatamente. Altri cinque inni e poi altri cinque ed altri cinque, un vero hangover di nazionalismo. Dall’Agenzia
non demordevano. Si decise a rispondere.
“Ma che cazzo combini? E perché non
rispondi al telefono?”
“Ero al cesso”, mentì John.
“E a me checcazzo me ne frega. Se
devi cagare portati dietro il cellulare”.
“OK Capo, prendo nota”.
“E smettila di prendere per il culo
testa di cazzo! Ma ti rendi conto di cos’hai combinato?
Le domande retoriche erano la
grande specialità del Capo, alias Joseph K. Conrad, esperto di esoterismo e di
controllo delle anime, grande cavalcatore del lato oscuro della forza, modesto
giocatore di golf e pessimo giocatore di poker, oltre che vice-direttore
dell’Agenzia. Da quando John aveva memoria, era sempre rimasto allo stesso
posto, con ogni cambio di stagione, con il bello e il cattivo tempo, come il
nero che sta bene con tutto. Eppure era sempre rimasto vice di qualcuno,
necessario ma non sufficiente.
“Riassumiamo”.
E i riassunti erano la sua passione
personale, a cui associava una memoria di ferro, dettagliatissima, proverbiale
e inversamente proporzionale alla sua intelligenza.
“Ti dò l’incarico che potrebbe
ricoprire un qualsiasi poliziotto di quartiere, praticamente anche un cretino
pescato a caso nell’oceano atlantico dei cretini”.
“Sì”, John non trovò altro da dire,
si trattava di un’evidenza.
“Insomma ti mandiamo ad annusare la
passera della moglie del più grande oligarca dello Strombokistan, per
ricattarla e costringerla a lavorare come informatrice per noi. La cosa non è
difficile perché quella scopa più di una donna delle pulizie”.
Amante delle barzellette, meglio se
sporche o razziste, sfortunatamente per lui il suo originale senso
dell’umorismo non era giustamente apprezzato nell’ambiente, tranne che dai suoi
fedelissimi yesmen.
“E tu ti nascondi per bene, la
segui dappertutto, prendi nota, ti preoccupi pure che quel cane del cazzo che
sembra una salsiccia ti abbia scoperto. E cosa fai?”
Cosa faccio? – pensò John quasi
distrattamente. Aveva la riposta a quella domanda. Guardò la stanza squallida
di quell’albergo di terza categoria. Chi l’avesse visto lo avrebbe trovato un
bruco insignificante nel cuore della Grande Mela Marcia.
“Tu ti fai scambiare l’agenda con
tutta l’informazione da un’agente sotto copertura, probabilmente russa, che la
starà già utilizzando. Una cosa da B-movie
degli anni settanta, cazzo! Ma non è tutto”.
Effettivamente non era tutto.
Mancava la ciliegina sulla torta.
“Visto che sei nato nella
preistoria, hai fatto la scuola con i dinosauri e hai visto il primo computer
che eri già sposato e divorziato, continui a utilizzare gli appunti di carta e
per di più sempre sull’agenda delle tre missioni precedenti. Il che include, se
non mi sbaglio...”.
John escluse che potesse sbagliarsi.
Il Capo non ometteva il minimo dettaglio quando era ora di cazziare.
“...se non sbaglio ripeto, tutti
gli elementi chiave dell’operazione Pokemon, l’identità degli informatori
Pantera Rosa e Paperino, oltre a tutti i codici criptati dell’operazione Lady
Oscar, ovvero quanto ci sia di più sensibile per il nostro governo allo stato
attuale. Ho dimenticato qualcosa?”
Non aveva dimenticato niente. E per
una volta aveva anche ragione quello stronzo presuntuoso e volgare. La propria
posizione era indifendibile, un condannato a morte attaccato al lettino
dell’iniziezione letale, dopo che l’ultimo appello è stato respinto dalla Corte
Suprema.
“Però il racconto che mi ha
lasciato è proprio bello”, aggiunse John.
“Che racconto, di cosa stai
parlando?”
“Nell’agenda che ha scambiato con
la mia, quella uguale alla mia, c’era effettivamente un racconto. L’ho letto, a
me piace, è ispirato ad un romanzo di James Joyce. E’ forse anche un po’
autobiografico, mi ricorda un po’ la mia infanzia. Mi chiedo se l’abbia scritto
veramente lei oppure abbiano reclutato un writer.
Anch’io giocavo con i trenini e avevo un’amica del cuore”.
“Sei licenziato”.
“Lo so”.
Il Capo riattaccò, John si distese
sul letto, osservando l’immobilità assoluta del ventilatore che pendeva
arrugginito dal soffitto. Un ventilatore che avrebbe potuto attivare con un
semplice gesto della mano. L’interruttore era posizionato a fianco al comodino,
facilmente raggiungibile. Spesso la differenza tra vivere o morire, vincere o
perdere, sta in un gesto semplice, quotidiano. E prima ancora che nel gesto,
sta nella decisione di fare quel gesto. Ma rompere l’immobilità è quanto di più
rivoluzionario ci sia per un soggetto della specie homo sapiens sapiens.
Bussarono alla porta. John la aprì
senza guardare chi fosse. Entrò il vecchio Daniel che prese la poltrona e si
sedette di fronte al letto appoggiandosi con lentezza allo schienale.
“Allora?”, chiese Daniel.
“Tutto bene”, sispose John.
“Sei sicuro?”
“Positive. Pensa che io sia un rincoglionito che ha fatto la cazzata
al bordo della pensione. Sono mesi che gli ho instillato questo dubbio”.
“Veramente sicuro?”
John si limitò a osservarsi
scrupolosamente le unghie curatissime e non aggiunse altro.
“Se lo dici tu ci credo”, aggiunse
il vecchio quasi per scusarsi, poi continuò con tono professionale, “I soldi
sono sul conto, i codici d’accesso li hai già, cambiali nelle prossime 72 ore.
“Già fatto”.
“Perfetto”, il vecchio fece una
piccola pausa quasi a controllare la check-list
che aveva memorizzato, poi aprì la cartella di pelle che aveva con sé. “Ecco il
biglietto con partenza da Mexico City, queste sono le chiavi della macchina, il
serbatoio è pieno. Qui ci sono un paio di passaporti se ne dovessi avere
bisogno, un bonus in caso ti vengano a cercare, decisione della ragazza, l’ho
già ringraziata da parte tua”.
John prese i passaporti, li osservò
controluce, passò le dita sulle pagine vuote e su quelle con alcuni timbri. Era
un lavoro ben fatto, perfettamente identici agli originali, molto credibili.
“Quasi dimenticavo”, aggiunse il
vecchio quasi imbarazzato, “la ragazza ti fa i complimenti. Dice che non ha mai
visto qualcosa del genere, un attore geniale ha detto, really”.
John non accennò una risposta, non
fece un gesto. Per essere naturali è necessario credere quello si deve essere.
Non basta pensare di essere qualcuno, ma bisogna diventarlo, carne ossa,
certificato medico e abbonamento della metropolitana. Gli attori fanno finta, terminata
la scena si struccano e tornano a casa. Le spie diventano colui che devono
impersonare, non entrano nei suoi panni, ma direttamente nella sua pelle.
Devono essere così credibili da ingannare il narratore in persona.
“OK, allora io vado”, fece Daniel
appoggiando le mani sui braccioli per aiutarsi ad alzarsi.
“Come l’avete preso?”, aggiunse
John senza pramboli, come se l’altro sapesse di cosa stesse parlando.
“Lo sai come l’abbiamo preso”.
“Allora, se vuoi dirmelo, come
l’avete trovato? Come siete arrivati a Buenos Aires, via Garibaldi, l’11 Maggio
1960?”
Daniel esitò quel secondo di troppo
che non gli permise di negare o di trovare una scusa generica. Erano decenni
che non ne parlava con qualcuno. Il suo fu il silenzio di una memoria caduta
nell’oblio.
“Il figlio”, aggiunse infine, “Eichmann
junior parlava troppo. Se vuoi un
consiglio, stai lontano dalla tua famiglia, non avere contatti con gli amici,
cancella il tuo passato”.
John annuì, il vecchio gli tese la
mano. Non sapeva quale fosse la ragione che l’avesse spinto a vendersi, ma non
era lì per scoprirlo. Quando aveva la mano già sulla maniglia della porta John
gli chiese:
“Chi ha scritto il racconto? Quello
nel quaderno”.
“La ragazza credo. E’ lei che ha
creato l’operazione e vuole sempre decidere su tutto”.
“Mi è piaciuto. Se la vedi dille
che il racconto era davvero bello”.
Il vecchio Daniel fece un segno con
il capo, uscì lento e richiuse la porta dietro di sé senza fare rumore.