venerdì 19 dicembre 2014

Circolo virtuoso (racconto)


Carolina la giraffa si era innamorata di Leonardo il leone, un problema non indifferente, soprattutto per lei. Carolina era arrivata da due mesi, assieme alle sorelle Margherita, Stefania e Monica. Quattro nomi che valevano otto, perché indicavano sia la giraffa che l’equilibrista con cui faceva il numero. L’omonimia tra l’animale e la persona aveva generato non poca confusione nel Circo Razzoli, che già di suo aveva eretto il Caos a principio cardine della gestione. Più di una volta il direttore, il Signor Razzoli in persona, aveva urlato “portatemi Monica!”. E invece della brunetta dai capelli a caschetto e gli occhi a mandorla che era anche la portavoce del quartetto di equilibriste campane, appariva fuori dalla sua roulotte la giraffa Monica, che lo guardava con occhi beati, ruminando una manciata di fieno con grande piacere, facendo roteare la mandibola inferiore con regolarità certosina. Monica la salernitana, invece, era probabilmente intenta a litigare con le tre sorelle gemelle, una battaglia che conduceva da una vita, con cadenza quotidiana e grande dedizione personale. Le ragioni erano così varie da risultare ininfluenti: la lite sembrava il vero scopo – l’alpha e l’omega – di tutti i loro sforzi. Potevano litigare per delle ore, anche tutto il giorno, per giorni successivi, insultandosi e ricordandosi torti reciproci. Nella loro roulotte, che veniva sempre messa ai margini del campo a causa dei troppi decibel, si mangiava esclusivamente in piatti di carta, perché quelli di ceramica venivano usato come frisbee.
“Folli, folli, folli”, era il commento del Signor Razzoli, che si faceva chiamare Dottore benché il suo nome apparisse negli atti scolastici ufficiali solo fino alla terza media, probabilmente per un banale errore di trascrizione. Il Dottore, ultimo membro vivente di un’illustre stirpe di domatori di leoni – la Grande Famiglia Razzoli appunto – aveva ereditato il circo da suo padre, in seguito alla di lui morte avvenuta in tragiche circostanze due anni prima. Per tragiche circostanze bisogna fare riferimento allo sbranamento dello stesso a opera del leone Leonardo, già colpevole della morte di Rizzoli Stefano, fratello maggiore del Dottore ed erede designato per la continuazione dell’attività familiare. Nonostante la recidiva, per di più aggravata dall’illustre discendenza di entrambe le vittime, al leone Leonardo era stata risparmiata la vita. Non solo, era anche stato decisio di raddoppiarne la razione di carne a scopo preventivo.
Tanta clemenza aveva sollevato dubbi ed elucubrazioni all’interno del circo, il cui secondo pilastro gestionale era solidamente costruito sui pettegolezzi più indiscreti e le teorie complottistiche più fantasiose. Varie ipotesi furono elaborate per giustificare la permanenza del leone Leonardo tra i vivi. Una era che la morte del padre e del fratello del Dottore non era stata per nulla accidentale, anzi faceva parte di una macchinazione volta a eliminare, prima il concorrente all’eredità, e poi lo scomodo patriarca. A riprova di tale tesi, veniva portata la manifesta megalomania del Razzoli, associata a un’ambizione smisurata e a un cinismo leggendario. Un’altra tesi identificava invece il colpevole nella famiglia Bortolotti, anch’essa specializzata nella domazione di leoni e proprietaria dell’omonimo circo, principale concorrente della famiglia Razzoli. A supporto di tale ipotesi vi era la conclamata inimicizia tra le due famiglie, sfociata in passato in una faida violentissima che aveva lasciato tracce di sangue sulle piazze di mezza Italia. Tuttavia da oltre un secolo le due stirpi di domatori si erano limitate all’ingiuria reciproca e a qualche sporadica provocazione goliardica, come la produzione di poster in cui si vedeva un membro dell’altra famiglia mentre stava domando una gallina, un asino o un coniglio.
Ma l’ipotesi più accreditata era che Leonardo il leone in realtà fosse la reincarnazione felina di Gianbattista Eufebio Razzoli. Quadrisavolo del Dottore e iniziatore dell’augusta dinastia dei Razzoli, Gianbattista Eufebio Razzoli lasciò nel 1854 un promettente lavoro di impiegato postale ottenuto grazie a raccomandazione dell’arcivescovo di Venezia suo parente, per rincorrere la fama e la gloria onnipotente del domatore di leoni. Il ritratto di Gianbattista Eufebio veniva collocato all’entrata del circo appena il tendone veniva montato e molti degli artisti vi attribuivano poteri sovrannaturali. Spesso depositavano delle offerte, accendevano delle candele e facevano dei tipici rituali circensi per chiedere la grazia di guarire dal raffreddore o dal mal di schiena (il potere di Gianbattista Eufebio era conclamato in caso di colpo della strega). L’ipotesi della reincarnazione era stata formulata dalla decana del Circo Razzoli, Mariolina Biggetta detta Tutù, nonché fonte primaria di tutte le teorie complottistiche del circo, passate, presenti e future. Benché la fondatezza delle tesi di Tutù fosse spesso messa in dubbio – a partire dal suo stesso marito Antonio Martello – nel caso particolare la teoria aveva assunto un certo peso specifico, sia in virtù della recente conversione al buddismo del Razzoli, sia del fatto ormai conclamato che Tutù fosse l’amante del Razzoli stesso, all’insaputa del marito Martello, e dunque in possesso di informazioni privilegiate. Mariolina Biggetta aveva da tempo pensato di confessare al marito la storica relazione con il Dottore, ma si era trattenuta per paura che l’ira di Antonio Martello – estremamente collerico anche in condizioni normali – non sfociasse in una carneficina durante l’esibizione circense, in cui la Tutù svolgeva il ruolo della donna sfiorata – ma per il momento non ancora trafitta – da lunghi ed affilatissimi coltelli che il Martello fabbricava personalmente e affilava e con grande cura due volte la settimana, il martedì e il venerdì.
“Riunione di circo!”, aveva intimato il Dottore, cui piaceva vedersi come grande manager circense e adottava sistematicamente le tecniche di gestione apprese dalla lettura ripetuta di Come farsi sempre ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del rispetto, libro intenso e profondo, capace di svelare le tecniche manageriali più efficaci e gelosamente custodite dai leader mondiale, incluso Barak Obama. Il Dottore era un devoto degli insegnamenti del Libro e non riusciva a credere che fosse uscito da catalogo, attribuendo il fatto alla cecità umana e a una politica editoriale riprovevole.
“Qui c’è bisogno di un breistorning”, aveva aggiunto rigirando con una mano il baffo alla Dalì che si era fatto crescere con tanta cura e che spalmava regolarmente di pomata per renderlo più appuntito e splendente. Con l’altra mano aveva indicato la roulotte comune, luogo deputato ad accogliere le riunioni dei circensi, piuttosto rare prima dell’avvento del Libro, ma generalmente ad alto contenuto d’intrattenimento. Aveva ripetuto breistorning tre volte ed era rimasto con l’indice puntato verso la roulotte, una posa che a lui doveva ricordare quella di Napoleone durante la battaglia delle piramidi e che invece al clown Giuseppe richiamava il film Moby Dick: l’immagine di Gregory Peck attaccato alla schiena della grande balena bianca che agitava ormai incosciente il braccio chiamando i marinai verso la loro fine.
Il clown Giuseppe – da tutti considerato un intellettuale – era l’unico oltre al Dottore che fosse mai stato visto in compagnia di un libro, che aveva addiritura la cura di cambiare una volta finito. Giuseppe era il primo clown nella storia del Circo Razzoli a non essere in cura da uno psicanalista, a non aver mai visto uno psicologo, né un cartomante, né un indovino. Non aveva mai tentato il suicidio, né mangiando quintali di zucchero filato come il suo predecessore diabetico, né gettandosi sotto le zampe degli elefanti come quello precedente. Stranamente non affetto da alcun tipo di depressione, il clown Giuseppe era al contrario un elemento di stabilità emotiva nel Circo Razzoli, il cui terzo pilastro gestionale si basava su incertezze croniche, dubbi esistenziali e – occasionalmente – crisi di panico incontrollato. In mancanza di meglio, il clown Giuseppe era diventato suo malgrado una specie di punto riferimento dei circensi, che si accomodavano nella sua roulotte dopo lo spettacolo e si lasciavano andare a divagazioni e aneddoti personali, confessioni  e pentimenti, bevendo litri di caffé e mangiandogli tutti gli m&m’s senza chiedergli il permesso. A differenza della Tutù, il clown era una tomba e niente di quello che entrava dalle orecchie usciva dalla sua bocca, con o senza il rossetto. Giuseppe non capiva perché riuscisse a genere nei suoi colleghi un tale irrefrenabile desiderio di spalancargli le porte del loro animo. Certo sapeva ascoltare, o meglio si limitava ad annuire senza interrompere i fiumi di parole che venivano riversati nelle pause tra un m&m’s e l’altro. Certo anche che si interessava veramente a quello che gli dicevano, tanto che il problema altrui diventava, in fondo, anche il suo. Certo infine che il suo ego non creava eccessive barriere: un clown, in fin dei conti, non fa paura a nessuno, al massimo a se stesso. Tuttavia egli riteneva che tali ragioni non fossero sufficienti a spiegare il fenomeno nella sua interezza. Dopo molta riflessione si era convinto che la vera spiegazione stesse nel cerone. Era quella patina bianca che gli restava immancabilmente sulla faccia o sul collo, nonostante tutta la cura con cui si struccava, che scatenava la voglia di confessoine dei circensi. Perché loro non parlavano a lui come persona, ma al circo stesso come entità atemporale: fonte e scopo della loro vita.
Il ruolo di confidente privilegiato e il rispetto che vi era associato aveva messo il clown Giuseppe nel mirino del Dottore, sempre più geloso della sua considerazione all’interno del gruppo. Secondo una delle confidenze telodicomatunondirloanessuno della Tutù, Razzoli stava covando un astio profondo e ribollente contro Giuseppe, appena mascherato dai suoi comportamenti di maniera, che presto sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza. Nonostante Giuseppe non facesse nulla per per avere tale ruolo – o forse proprio a causa di ciò – il Dottore aveva intrapreso un’intricata campagna macchiavellica contro di lui, per metterne a nudo la presunta malvagità, l’incapacità professsionale, la plateale slealtà e l’innata disonestà. Fino a quel momento la campagna non aveva dato esiti di nota, a causa del comportamento irreprensibile del clown, che nel suo lavoro era paradossalmente molto serio.
La troupe si ritrovò fuori dalla roulotte principale e il Razzoli stava già per iniziare il lungo e pomposo discorso d’apertura,  un monologo interminabile generalmente ascoltato solo dalla Tutù, quando le sorelle siamesi – che in realtà erano cinesi – presero inaspettatamente la parola, o più precisamente urlarono in perfetta stereofonia “manca aclobata, manca aclobata”. Ad un’attenta verifica dell’Uomo Cannone – che a dispetto dell’apparenza da troglodita aveva uno spiccato senso sell’osservazione e una capacità analitica non indifferente – si certificò l’assenza ingiustificata di Rodion Romanovič Raskolnikov, alias Piuma Volante. Il russo era un acrobata affetto da una rarissima malattia – genetica per alcuni, psico-somatica per altri –  che gli causava forti crisi di vertigini quanto scendeva dal trapezio. Per ovviare a tale problema aveva deciso – come in un racconto di Kafka – di vivere perennemente appeso in aria, organizzandosi in maniera astuta per ricevere rifornimenti di cibo ed espellere i residui fisiologici. A differenza del racconto di Kafka, veniva tirato giù a forza quando era ora di smontare il tendone e per ovviare alle crisi di vertigini gli veniva data una cassa di vodka, a suo dire unico rimedio alla grave malattia da cui era affetto.
Il Dottore non riuscì a nascondere tutta la sua personale contrarietà per l’osservazione anticlimatica delle siamesi cinesi, ma si ricordò dei precetti enunciati nel Libro, con particolare riferimento al capitolo dedicato all’importanza dell’inclusione dei sottoposti nel processo decisionale caratterizzato da awareness e ownership (entrambi termini sottolineati con la penna rossa) e non se la sentì di continuare senza Piuma Volante. Ordinò a Giuseppe di andarlo a chiamare. Quando questi gli fece presente che Piuma si muoveva solo con il suo trapezio e suggerì di organizzare la riunione direttamente nel tendone, Razzoli ebbe un moto di stizza che causò un impercettibile movimento dei baffi artistici, che si raddrizzarono come la coda di un gatto che sta per graffiare. Pensò che era venuto il momento di accusare il clown pubblicamente di insubordinazione, ammuntinamento, tradimento e altri gravi delitti di cui si era ripetutamente macchiato. Ma notando che tutti assentivano, chi con un movimento della testa, chi a parole e chi – come il nano Brontolo – soffiandosi rumorosamente il naso, fece di necessità virtù e prese la testa della truppa marciando con passo deciso verso il tendone.
Il tendone del Circo Razzoli era da tutti considerato qualcosa a metà tra un vecchio amico e una persona di famiglia. In un ambiente in cui non si facevano grandi distinzioni, né a livello di genere, né di origine sociale, né addirittura tra esseri umani e animali, era normale che un tendone potesse rientrare a pieno titolo tra i membri della famiglia, e così era. Il tendone aveva un nome (Michelone), delle idiosincrasie (odiava il Veneto orientale e si afflosciava ogni volta che il circo si fermava a Jesolo), delle gelosie (più di una corda di sicurezza aveva misteriosamente ceduto quando veniva usata da uomini che corteggiavano la contorsionista), delle preferenze etniche (vietato far entrare sudamericani), una passione per i bambini biondi con i ricci (il poster della Nutella non cadeva mai a differenza di tutti gli altri), un odio per i pop corn e l’odore di olio bruciato (la macchina dei pop corn aveva più menomazioni di un mutilato di guerra) e molti aneddoti da raccontare. Privo di parola, almeno per i neofiti del circo, comunicava attraverso il rosso sbiadito e il bianco sporco della tela, cui si alternavano rattoppi multicromatici dovuti all’usura e al ripetersi inteminabile di montaggi e smontaggi.
I circensi passarono per la grande apertura di Michelone sotto la scritta Circo Razzoli e a fianco al ritratto di Gianbattista Eufebio Razzoli. Entrarono nello stesso ordine che avevano nella rassegna di fine spettacolo, quando tutti gli artisti si presentavano di fronte al pubblico, facendo il giro della pista e poi uscendo tra gli applausi, quando ce n’erano. Dopo il Dottore fu il turno delle sorelle campane (per una volta senza giraffe e quasi senza litigare), delle siamesi cinesi, del giocoliere Bartezzaghi che aveva dato fuoco alle sue clave e le faceva roteare sulla testa del nano Brontolo che non era affatto contento, della contorsionista thailandese aggrappata con le gambe alle spalle dell’Uomo Cannone, del corpo di ballo al completo (ovvero quattro pesone), da Antonio Martello seguito da Tutù e da Inverso, l’uomo che camminava sulle mani. Chiudevano la processione il clown Giuseppe e Denise l’addestratrice di gatti, che in molti vedevano come una coppia naturale. Un amore quasi obbligato, che – secondo fonti non verificate – non era sfociato solo a causa della terribile allergia al pelo di gatto di Giuseppe, per cui non era stato ancora trovato rimedio. Piuma Volante li aspettava appollaiato sul suo trespolo, ancora con il costume di scena cosparso di lunghe piume bianche e grigie che lo faceva assomigliare a un barbagianni.
Razzoli aspettò che tutti si accomodassero, chi sulle panche degli spettatori, chi per terra, quest’ultimi facendo particolare attenzione a scansare le enormi cacche di elefante che erano ancora dissemnate a macchia di leopardo. Ci volle un po’ di tempo prima che il rumore di passi e le voci di genti diventasse un normale brusìo di sottofondo, per poi evaporare in un silenzio sufficientemente formale perché il Dottore si decidesse a parlare. Si era procurato il microfono delle grandi occasioni, quello a forma di cono di gelato con le palline colorate e la panna montata finta. Ma appena lo accese partì la musichetta del circo a tutto volume ta ta ta da da dan da da ta ta ta da da dan da da e – per un riflesso pavolviano incontrollabile oltre che incondizionato – tutti si misero in moto  come se fossero le figurine di  un carrillon per bambini, chi sventolando i costumi impumati e chi mettendosi a girare sulla testa. La confusione era generale, perché ognuno si esibiva senza badare a quello che facevano gli altri, in una specie di baccanale circense improvvisato.
Se Razzoli avesse mantenuto una prospettiva d’insieme e avesse osservato con attenzione e sufficiente distacco la scena, si sarebbe reso conto che quel movimento spontaneo e incontrollato, vivente e spumeggiante, era probabilmente lo spettacolo più bello che il Circo Razzoli avesse mai mostrato durante l’intera sua venerabile esistenza. Ma si dà il caso che il Dottore fosse troppo indispettito dall’improvvisa anarchia e mancanza di rispetto per la sua leadership instituzionale per apprezzare il valore artistico della performance involontaria dei suoi circensi. Vedendolo sull’orlo del baratro isterico, il clown Giuseppe si tuffò a volo d’angelo sull’altoparlante come faceva nel suo numero acrobatico e staccò la spina, congelando il movimento dei suoi colleghi.  Rimasero immobili, cristallizzati in una posizione innaturale come nei film in cui, per un attimo, il tempo si blocca. Assieme all’immobilità giunse il silenzio e Razzoli fu costretto a ringraziare il clown – suo malgrado e a denti strettissimi.
“Siamo qui riuniti”, iniziò con tono papale, “perché abbiamo un problema”.
La Tutù annuì prontamente. La presenza di un problema la galvanizzava, ancora di più se in assenza  di una soluzione e possibilmente associato a conseguenze catastrofiche. Non era sprezzo del pericolo come in molti pensavano, forse facendosi influenzare dal lavoro di moglie del lanciatore di coltelli. No, la Tutù era semplicemente attratta, fin dall’infanzia, da tutto ciò che di più infausto ci potesse essere: disgrazie, malattie terminali, tragedie umane, cataclismi naturali, morte e distruzione. Doveva ricevere la sua dose giornaliera di notizie funeste, e non mancava un solo telegiornale. Aveva una predilezione particolare per gli incidenti aerei e si era abbonata al canale National Geographic solo per avere accesso a degli splendidi documentari che illustrano con dovizia di particolari, simulazioni grafiche e interviste ai sopravvissuti, tutte le possibili cause che possano contribuire ad abbattere un aereo in volo, possibilmente sopra un’area densamente popolata, causando disastri a catena. Quando le disgrazie non avvenivano, oppure si verificavano in luoghi troppo lontani per poterne sentire l’effetto, si sentiva obbligata a compensare con il suo personale intervento. Dove non c’era un problema, si poteva sempre crearlo.
“E il problema è...”
Il Dottore si fermò a riflettere. Nella concitazione generale aveva improvvisamente dimenticato la ragione per cui aveva organizzato il breistorning. E più si sforzava di ricordare, più la sua memoria retrocedeva.
“Il problema è...”, ripeté per guadagnare un po’ di tempo. Ma non a sufficienza, perché la memoria rimase bianca, candida come un nevaio d’alta montagna. Non riuscì a continuare. In molti pensarono che stesse applicando una nuova tecnica di management tratta da Come farsi ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del rispetto e abbozzarono uno sguardo d’intesa, oppure annuivano pensierosi. Solo la Tutù si era resa conto che Razzoli si era letteralmente imbambolato, quasi fosse caduto vittima di una seduta di autoipnosi: rigido e immobile come un’asse da stiro. Avrebbe potuto aiutarlo, fargli un cenno, oppure ricordargli a voce la ragione per cui la riunione era stata organizzata, ma non lo fece. Vederlo in piedi, con la giacca rossa e i bottoni d’orati, il trucco attorno agli occhi, il cappellone nero che nascondeva la calvizia incipiente, gli anelli d’oro alle dita, i pantaloni troppo stretti e i baffi che avevano perso la consueta baldanza, le dava un piacere intenso, il piacere del ridicolo altrui.
“Il problema è che non ci paghi”
La voce che proveniva dall’alto e l’accento russo lasciavano pochi dubbi sull’origne della lamentela. Piuma Volante era conosciuto per le sue rivendicazioni sindacali. La leggenda narrava che fosse discendente diretto di Trotski e che nelle sue vene scorresse senza sosta il più puro sangue bolscevico, almeno quando non veniva mischiato con il rimedio contro le vertigini. Il Russo era visibilmente contrariato e il suo trapezio oscillava irrequieto da una parte all’altra di Michelone. Per sottolineare le sue parole fece una serie impressionante di volteggi e salti mortali – tutti senza corda e senza rete di protezione – che avrebbero convinto il più scettico degli oppositori capitalisti.
“E’ vero, dacci i soldi Dottore. I soldi, ladro!”
Il volteggio era stato superfluo, non era necessario convincere nessuno. La questione dei soldi era una ferita costantemente aperta presso il Circo Razzoli e fonte di costanti mugugni e di innumerevoli spunti complottistici. C’era chi accusava il Dottore di non dichiarare parte dei ricavi, soprattutto quelli derivanti dallo zucchero filato e dalla vendita di fotografie, e chi invece lo accusava di non fare investimenti, obbligando Michelone – che ormai aveva più rattoppi di una bambola di pezza – a fare gli straordinari invece di potere andare in pensione nel paradiso dei teloni da circo, dove i bambini non fanno i capricci e i pagliacci non si tolgono mai il trucco, neanche per andare a dormire. Tutti si trovavano per una volta concordi sul fatto che la paga era da fame e le roulottes dei veri catorci.
La verità era per una volta molto più banale. Per il circo c’erano sempre meno spettatori, la concorrenza della famiglia Borlotti era spietata – il loro numero con i leoni che ballavano con i pattini a rotelle era un vero fenomeno – e i costi di girare per la pianura Padana con elefanti e tigri, leoni e giraffe era semplicemente proibitivo. Ma il senso dell’onore del Dottore non gli permetteva di ammetterlo, non solo pubblicamente, ma neanche a se stesso, per cui era ricorso a ogni tipo di stratagemma per occultare la verità, anche solo parzialmente.  
“I soldi, i soldi”, l’eco sembrava propagarsi all’infinito e in molti sospettavano che Michelone facesse la sua parte, usando la voce degli altri per esprimere la sua opinione.
“Smettete di lamentarvi buoni a nulla”. La risposta non era venuta dal Dottore, ormai ridotto all’impotenza, ma dalla Tutù, che un po’ si vergognava per averlo lasciato solo in balìa del gruppo.
“Taci, tu che ci vai a letto”.
La frase veniva dal basso e l’accento sardo costituiva un’ottima pista per identificare nel nano Brontolo il probabile proprietario intellettuale del pensiero.
“Cos’hai detto nano?”
La risposta non tardò ad arrivare e non fu necessario fare complicate illazioni per capire che Antonio Martello non aveva apprezzato.
“Che tua moglie se la fa con il capo, almeno un paio di volte a settimana, quando tu affili i tuoi coltelli”, rispose Brontolo, cui i concetti astratti stavano un po’ stretti e aveva la tendenza ad accompagnare le parole con dei gesti esplicativi. Stava ancora mimando una pratica sessuale a metà tra la fellatio e il cunnilingus che volò il primo coltello. Ma il nano era tanto basso quanto agile e soprattutto dotato di un’inesauribile capacità di sopravvivenza. Il coltello si conficcò nella panca di legno su cui era seduto e un secondo dopo Brontolo aveva già trovato rifugio in mezzo al gruppo, sapendo che Martello non avrebbe osato tirare coltelli nella folla.
“Il nano ha esagerato, ma ha ragione”, disse la contorsionista thailandese con la testa tra le gambe, proprio mentre Martello si stava calmando. Il ritorno di fiamma fu istantaneo, più veloce della bocca di un drago, anche se questa volta non se la prese con la piccola thailandese, ma con sua moglie Mariolina Biggetta detta Tutù, donna della sua vita, almeno fino a quel momento. I coltelli partirono all’unisono, sei lame volteggianti nell’aria che sapeva di sterco d’elefante. Si conficcarono all’unisono, facendo un unico tac contro il legno di frassino della parete divisoria tra il settore premium e quello children. Partirono urli, accuse di omicidio, qualcuno stava già chiamando l’ambulanza e la polizia, quando si accorsero che la Tutù era integra, nessun pezzo mancante, neanche una goccia di sangue. In compenso i coltelli l’avevano bloccata contro la parete di legno e non le permettevano il minimo movimento.
“Tu aspetta lì Tutù, che poi ne parliamo, prima devo chiarirmi con questo stronzo”, e si lanciò rosso di rabbia contro l’Uomo Cannone che cadde riverso nello sterco d’elefante e non capiva perché Martello l’iracondo ce l’avesse con lui.
“Bastardo!”
Martello aveva afferrato l’Uomo Cannone alla gola e stringeva con tutta la sua forza, che non era molta, visto che l’Uomo Cannone si alzò portandoselo dietro, tanto da farlo sembrare una specie di mantello che gli pendeva dal collo. Senza i suoi coltelli Antonio Martello era come Superman in presenza di criptonite: le gambuccie corte, il petto rientrante, la schiena ricurva, praticamente un fuscello da gettare al vento. Un movimento delle spalle del troglodita e Martello atterrò sul truciolato della pista. Con il rigore analitico che lo contraddistingueva, l’Uomo Cannone gli chiese ragione di tanta rabbia, al che lui rispose:
“Non potevo certo prendermela con la tua fidanzata contorsionista no?
Molto tradizionalista, Antonio Martello seguiva un suo personalissimo codice d’onore, in cui le donne erano sacre ed ogni obiezione alle loro azioni veniva riversata contro l’uomo di riferimento, in questo caso il Cannone.
“Nooooo!!!”
L’urlo giunse istantaneo, un vero grido di panico. Erano mesi che tutti mantenevano il segreto sulla relazione tra la microscopica thailandese e il ciclopico Uomo Cannone per paura della gelosia di Michelone. L’ultima volta che aveva sospettato che una sua contorsionista lo tradisse con qualcuno, c’era stato un terremoto. Non un terremoto metaforico o fittizio, ma un vero terremoto. Concentrato nell’area in cui il circo era installato, Michelone aveva causato un terremoto potentissimo, che non aveva causato vittime solo per miracolo. Gli spettatori erano stati sbalzati dalle panche e avevano nuotato a mezz’aria come astronauti in una navicella spaziale, poi erano precipitati violentemente, atterrando sulle gradinate e la pista. Rimasero riversi e doloranti nelle posizioni più disparate, come tanti birilli abbattuti da una palla da bowling. L’intera struttura aveva oscillato paurosamente, producendo un boato simile all’urlo di un orco, i cavi di metallo fibravano così intensamente da produrre un suono come di violino, lungo e vibrante, armonico e struggente come un accordo in re minore. In molti avevano pensato che quella era la vera voce di Michelone, che stava riversando in un canto triste e disperato tutto il suo amore impossibile per la contorsionista.
“Nooooo”, ripeterono in coro gli artisti, soprattutto quelli che avevano assistito all’ultimo terremoto.
In preda al panico, ognuno reagiva a modo suo. C’era chi – come l’Uomo Cannone e il Dottore – era rimasto tetanizzato, bloccato nella posizione iniziale e non riusciva a muoversi. Di questo gruppo faceva parte, suo malgrado, anche la Tutù che era ancora bloccata dai coltelli del marito, ma che non si sarebbe mossa per nulla al mondo: il terremoto di Michelone era stato il momento più bello e intenso della sua vita e non se lo sarebbe persa per nulla al mondo.
C’era chi aveva preso la via della fuga, anche se nella concitazione del momento si era sbagliato di direzione e continuava a sbattere contro gli altri che si muovevano in direzioni opposte. Neanche un acceleratore di particelle avrebbe potuto creare più scontri del moto cieco e casuale dei circensi presi dal panico. Finirono per creare un flusso circolare, come quello dei cavalli dell’esibizione equestre, non si sa se nell’illusione che una via d’uscita si potesse aprire all’improvviso oppure semplicemente assecondando il movimento degli altri.
Ma la maggioranza scelse una terza alternativa, istintiva come le precedenti, che era quella dell’aggressione e della violenza gratuita. Bartezzaghi il giocoliere iniziò a scagliare le clave infuocate contro il gruppo che correva in cerchio, dando prova di grande precisione nel lancio, abbattendone una buona parte e incendiando i vestiti dei superstiti. Il nano Brontolo aveva recuperato il coltello con cui Antonio Martello aveva tentato di colpirlo e mostrava chiare intenzioni di vendetta, oltre che una velocità di corsa ben superiore alle aspettative. Le quattro sorelle equilibriste – la cosa non stupirà – diedero fondo a tutto il loro bagaglio d’esperienza nella sottile arte della lite familiare: non si distingueva più di chi era la mano che tirava i capelli dell’altra o quale bocca mordeva quale polpaccio. Volavano insulti in salernitano stretto, spesso indistinguibili. Volavano in aria ciocche di capelli e pezzi di vestiti come stelle filanti e coriandoli a carnevale. Anche le siamesi ebbero una violenta reazione e sfogarono in un lampo tutta la frustrazione di una vita passata ad essere l’una lo specchio riflesso dell’altra. Litigavano in mandarino (quella di destra) e in cantonese (quella di sinistra), rinfacciandosi dispetti e accusandosi di essere stata l’una la causa della sciagura dell’altra. Dalle parole passarono rapidamente ai fatti: ognuna comandava un braccio, ma stranamente non quello più vicino alla sua testa, ma quello opposto. Quindi la siamese di destra tirava l’orecchio dell’altra con il braccio sinistro, mentre la siamese di sinistra usava il braccio destro per cercare di strangolare la sorella, rendendosi però conto della difficoltà di effettuare quell’operazione con una mano sola.
Oltre all’acrobata, che assecondava il movimento degli altri volteggiando pericolosamente da una parte all’altra del tendone, solo due persone non stavano partecipando alla grande commedia che stava andando in scena sulla pista del Circo Razzoli. Giuseppe il clown e Denise la domatrice di gatti rimanevano seduti sulle gradinate, assistendo allo spettacolo più bello che avessero mai visto: le pupille dell’altro. Si conoscevano da molto tempo, da quando Denise era scappata da casa e aveva cercato una sistemazione di fortuna, lavorando prima dietro le quinte e vendendo noccioline e poi creando il suo numero, nato quasi per caso giocando con i molti gatti che adottava in ogni città. Denise doveva avere diciassette anni quandò Giuseppe la vide per la prima volta e lui pochi anni di più. Nonostante si conoscessero ormai da più di quindici anni, Giuseppe di lei sapeva pochissimo, anche perché era l’unica – oltre al nano Brontolo – a non visitarlo regolarmente per le sedute di confessioni e consigli. In realtà Denise non parlava con nessuno, ed evitava qualsiasi tipo di comunicazione che non fosse puramente professionale. Per tutti era un mistero e le voci più maligne si erano diffuse per spiegare il suo strano comportamento, che in realtà era semplicemente causato da una timidezza estrema, quasi patologica. Denise aveva accettato la sua condizione e non si preoccupava di mettere a tacere i pettegolezzi. Si occupava solo dei suoi gatti, che non parlavano ma a cui comunicava ciò che gli altri non avrebbero capito.
Quanto al clown Giuseppe, non si faceva illusioni. Denise gli era sempre piaciuta, ma era stato scottato troppe volte da colleghe del circo – acrobate, contorsioniste, pagliacce, cavallerizze, domatrici di elefanti e di leoni, mangiatrici di spade e giocoliere – da poter credere che Denise fosse una persona prima di essere una circense. Perché gli artisti circensi non sono esseri umani, almeno non nel senso antropologico del termine. Da un punto di vista fisiologico non si distinguono molto dai loro simili: mangiano, bevono, sudano, ingrassano e dimagriscono. Ma da un punto di vista comportamentale sono una razza a parte, incompresibile anche per uno come Giuseppe – circense figlio di circensi – che in quell’ambiente era nato.
Né Giuseppe né Denise riuscivano a staccare lo sguardo da quello dell’altro. Per la prima volta la domatrice di gatti riusciva a guardare qualcuno dritto negli occhi. Prima aveva sempre guardato lo spazio di pelle tra le due ciglia, quello che separa gli occhi, poco sopra al naso. Occasionalmente poteva guardare un occhio, oppure l’altro, ma i due occhi allo stesso tempo mai. Quanto a Giuseppe, per la prima volta da molto tempo la vedeva senza il suo costume di scena: niente perline, né calze argentate e scintillanti. Soprattutto nessuna traccia di quel trucco che sembrava una piuma d’uccello esotico, con delle strisce verdi, gialle e azzurre a formare un’onda che si perdeva nelle tempie. Si rese conto di quanto fosse bella, la pelle chiara e i capelli castani, le sopracciglia fine e le labbra di un rosa quasi etereo. Giuseppe la stava guardando e la stava ascoltando. Non le parole, che anche quel giorno rimasero chiuse nel suo petto, ma il battito del suo cuore. In mezzo alla gazzarra che li circondava – tra urla, spinte e botte fratricide – percepiva perfettamente il pum pum del suo cuore: lento, regolare, vero.
“Giuseppe, Giuseppe!”, lo chiamò il Dottore dal centro della pista, con la giacca sbottonata e il farfallino disfatto. Aveva perso il cappello e il riporto si era scomposto, lasciandolo con una lunga ciocca di capelli di un nero innaturale che pendeva dal lato sinistro della testa.
“Giuseppe falli smettere, ti prego!”, la sua era più di una domanda d’aiuto. Era una vera supplica da uomo disperato, da chi non ha più alternative né speranza, che ha perso la faccia e che sa che non la riavrà indietro.   
Il clown Giuseppe esitò. Sapeva che aveva il potere di farli smettere. Avrebbe potuto prendere il microfono e iniziare il suo spettacolo come ogni sera e quello sarebbbe probabilmente bastato a fermare la lotta che si stava svolgendo. Fu tentato di rispondere alla supplica del Dottore, stava quasi per alzarsi, ma si trattenne. La sua non era vendetta contro il Dottore. Per quanto Razzoli lo detestasse, lui non ricambiava quell’odio. In Razzoli vedeva un uomo solo, costretto a recitare la sua parte perché gli altri continuassero a recitare la loro vita. In qualche modo ammirava la sua dedizione alla causa, il suo stoicismo e la sua lotta titanica e antistorica.
Infine si alzò, prese Denise per mano e uscirono insieme dal tendone. Il Direttore si accasciò sulle ginocchia e si mise a piangere, come un bambino nella tormenta. Il trucco si sciolse in dense gocce nere che andarono a macchiare la giacca rossa dai bottoni dorati.
Pochi minuti dopo faceva la sua entrata Leonardo il leone, seguito da Michele, Joseph, Linnette, Rambo e Rachele. I sei leoni si posizionarono in semicerchio all’entrata di Michelone, bloccando al tempo stesso ogni via di fuga. La reazione non fu immediata, molti erano troppo intenti a picchiarsi, mordersi e insultarsi per rendersi conto di quello che stava succedendo. Fu un processo piuttosto graduale, come una canzone che finisce in un decrescendo progressivo, fino a che anche l’ultima nota scompare nel silenzio. Infine erano tutti in piedi in attesa che succedesse qualcosa. In molti guardarono il Dottore, ma era chiaro che in quello stato pietoso non sarebbe stato in grado di domare neanche a un topo.
Come in una coreografia attentamente studiata, i sei leoni si distribuirono a cerchio attorno alla pista e iniziarono a camminare lentamente verso i circensi, con le fauci spalancate e lo sguardo di chi ha visto un’abbondante colazione. I circensi si strinsero verso il centro, sempre più vicini gli uni agli altri, fino a che lo spazio terminò e furono costretti ad abbracciarsi. Ma i leoni non cessavano di progredire, con lento passo sadico. Fu Piuma Volante a risolvere la situazione, lanciando una corda dal suo trapezio, a cui si aggrappò immediatamente la contorsionista thailandese, seguita dall’Uomo Cannone, Brontolo il nano e Bartezzaghi il giocoliere. L’ultimo a salire fu il Dottore, incerto fino all’ultimo tra affrontare una morte degna oppure scegliere una salvezza ignobile. Decise per la seconda.
In pochi secondi l’intero circo era appeso al trapezio di Piuma Volante. Un miracolo della fisica, visto che i cavi dovevano sopportare cento volte il peso per cui erano state costruiti, ma era chiaro che Michelone ci stava mettendo il suo zampino. I circensi rimanevano appesi con le mani di chi li precedeva, in una piramide umana sospesa. L’unico ad usare le gambe invece che le braccia era stato Inverso, che non volle rinunciare ai suoi principi neanche nel pericolo.
Quando la piramide umana smise di oscillare, il clown Giuseppe apparve all’entrata, con ancora in mano la frusta con cui aveva fatto entrare i leone. Era perfettamente struccato, non una traccia di cerone gli si poteva vedere in faccia o sul collo. Era vestito di un completo grigio, una camicia bianca perfettamente stirata, una cravatta blu e un cappello alla Humphrey Bogart. Al suo fianco c’era Denise, con un tailleur beige, un cappello grigio dalla forma arrotondata, la gonna al di sotto del ginocchio e scarpe nere a mezzo tacco.  Giuseppe sollevò il bavero della giacca come se avesse freddo, prese il microfono a forma di cono gelato, lo accese, aspettò che la musica da circo terminasse e disse con una voce che parve non essere sua: “This is the beginning of a beautiful friendship”.
Cinse la vita di Denise e uscirono di scena, lasciando a Michelone il compito di chiudere la tenda dietro di loro.