venerdì 19 dicembre 2014

Circolo virtuoso (racconto)


Carolina la giraffa si era innamorata di Leonardo il leone, un problema non indifferente, soprattutto per lei. Carolina era arrivata da due mesi, assieme alle sorelle Margherita, Stefania e Monica. Quattro nomi che valevano otto, perché indicavano sia la giraffa che l’equilibrista con cui faceva il numero. L’omonimia tra l’animale e la persona aveva generato non poca confusione nel Circo Razzoli, che già di suo aveva eretto il Caos a principio cardine della gestione. Più di una volta il direttore, il Signor Razzoli in persona, aveva urlato “portatemi Monica!”. E invece della brunetta dai capelli a caschetto e gli occhi a mandorla che era anche la portavoce del quartetto di equilibriste campane, appariva fuori dalla sua roulotte la giraffa Monica, che lo guardava con occhi beati, ruminando una manciata di fieno con grande piacere, facendo roteare la mandibola inferiore con regolarità certosina. Monica la salernitana, invece, era probabilmente intenta a litigare con le tre sorelle gemelle, una battaglia che conduceva da una vita, con cadenza quotidiana e grande dedizione personale. Le ragioni erano così varie da risultare ininfluenti: la lite sembrava il vero scopo – l’alpha e l’omega – di tutti i loro sforzi. Potevano litigare per delle ore, anche tutto il giorno, per giorni successivi, insultandosi e ricordandosi torti reciproci. Nella loro roulotte, che veniva sempre messa ai margini del campo a causa dei troppi decibel, si mangiava esclusivamente in piatti di carta, perché quelli di ceramica venivano usato come frisbee.
“Folli, folli, folli”, era il commento del Signor Razzoli, che si faceva chiamare Dottore benché il suo nome apparisse negli atti scolastici ufficiali solo fino alla terza media, probabilmente per un banale errore di trascrizione. Il Dottore, ultimo membro vivente di un’illustre stirpe di domatori di leoni – la Grande Famiglia Razzoli appunto – aveva ereditato il circo da suo padre, in seguito alla di lui morte avvenuta in tragiche circostanze due anni prima. Per tragiche circostanze bisogna fare riferimento allo sbranamento dello stesso a opera del leone Leonardo, già colpevole della morte di Rizzoli Stefano, fratello maggiore del Dottore ed erede designato per la continuazione dell’attività familiare. Nonostante la recidiva, per di più aggravata dall’illustre discendenza di entrambe le vittime, al leone Leonardo era stata risparmiata la vita. Non solo, era anche stato decisio di raddoppiarne la razione di carne a scopo preventivo.
Tanta clemenza aveva sollevato dubbi ed elucubrazioni all’interno del circo, il cui secondo pilastro gestionale era solidamente costruito sui pettegolezzi più indiscreti e le teorie complottistiche più fantasiose. Varie ipotesi furono elaborate per giustificare la permanenza del leone Leonardo tra i vivi. Una era che la morte del padre e del fratello del Dottore non era stata per nulla accidentale, anzi faceva parte di una macchinazione volta a eliminare, prima il concorrente all’eredità, e poi lo scomodo patriarca. A riprova di tale tesi, veniva portata la manifesta megalomania del Razzoli, associata a un’ambizione smisurata e a un cinismo leggendario. Un’altra tesi identificava invece il colpevole nella famiglia Bortolotti, anch’essa specializzata nella domazione di leoni e proprietaria dell’omonimo circo, principale concorrente della famiglia Razzoli. A supporto di tale ipotesi vi era la conclamata inimicizia tra le due famiglie, sfociata in passato in una faida violentissima che aveva lasciato tracce di sangue sulle piazze di mezza Italia. Tuttavia da oltre un secolo le due stirpi di domatori si erano limitate all’ingiuria reciproca e a qualche sporadica provocazione goliardica, come la produzione di poster in cui si vedeva un membro dell’altra famiglia mentre stava domando una gallina, un asino o un coniglio.
Ma l’ipotesi più accreditata era che Leonardo il leone in realtà fosse la reincarnazione felina di Gianbattista Eufebio Razzoli. Quadrisavolo del Dottore e iniziatore dell’augusta dinastia dei Razzoli, Gianbattista Eufebio Razzoli lasciò nel 1854 un promettente lavoro di impiegato postale ottenuto grazie a raccomandazione dell’arcivescovo di Venezia suo parente, per rincorrere la fama e la gloria onnipotente del domatore di leoni. Il ritratto di Gianbattista Eufebio veniva collocato all’entrata del circo appena il tendone veniva montato e molti degli artisti vi attribuivano poteri sovrannaturali. Spesso depositavano delle offerte, accendevano delle candele e facevano dei tipici rituali circensi per chiedere la grazia di guarire dal raffreddore o dal mal di schiena (il potere di Gianbattista Eufebio era conclamato in caso di colpo della strega). L’ipotesi della reincarnazione era stata formulata dalla decana del Circo Razzoli, Mariolina Biggetta detta Tutù, nonché fonte primaria di tutte le teorie complottistiche del circo, passate, presenti e future. Benché la fondatezza delle tesi di Tutù fosse spesso messa in dubbio – a partire dal suo stesso marito Antonio Martello – nel caso particolare la teoria aveva assunto un certo peso specifico, sia in virtù della recente conversione al buddismo del Razzoli, sia del fatto ormai conclamato che Tutù fosse l’amante del Razzoli stesso, all’insaputa del marito Martello, e dunque in possesso di informazioni privilegiate. Mariolina Biggetta aveva da tempo pensato di confessare al marito la storica relazione con il Dottore, ma si era trattenuta per paura che l’ira di Antonio Martello – estremamente collerico anche in condizioni normali – non sfociasse in una carneficina durante l’esibizione circense, in cui la Tutù svolgeva il ruolo della donna sfiorata – ma per il momento non ancora trafitta – da lunghi ed affilatissimi coltelli che il Martello fabbricava personalmente e affilava e con grande cura due volte la settimana, il martedì e il venerdì.
“Riunione di circo!”, aveva intimato il Dottore, cui piaceva vedersi come grande manager circense e adottava sistematicamente le tecniche di gestione apprese dalla lettura ripetuta di Come farsi sempre ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del rispetto, libro intenso e profondo, capace di svelare le tecniche manageriali più efficaci e gelosamente custodite dai leader mondiale, incluso Barak Obama. Il Dottore era un devoto degli insegnamenti del Libro e non riusciva a credere che fosse uscito da catalogo, attribuendo il fatto alla cecità umana e a una politica editoriale riprovevole.
“Qui c’è bisogno di un breistorning”, aveva aggiunto rigirando con una mano il baffo alla Dalì che si era fatto crescere con tanta cura e che spalmava regolarmente di pomata per renderlo più appuntito e splendente. Con l’altra mano aveva indicato la roulotte comune, luogo deputato ad accogliere le riunioni dei circensi, piuttosto rare prima dell’avvento del Libro, ma generalmente ad alto contenuto d’intrattenimento. Aveva ripetuto breistorning tre volte ed era rimasto con l’indice puntato verso la roulotte, una posa che a lui doveva ricordare quella di Napoleone durante la battaglia delle piramidi e che invece al clown Giuseppe richiamava il film Moby Dick: l’immagine di Gregory Peck attaccato alla schiena della grande balena bianca che agitava ormai incosciente il braccio chiamando i marinai verso la loro fine.
Il clown Giuseppe – da tutti considerato un intellettuale – era l’unico oltre al Dottore che fosse mai stato visto in compagnia di un libro, che aveva addiritura la cura di cambiare una volta finito. Giuseppe era il primo clown nella storia del Circo Razzoli a non essere in cura da uno psicanalista, a non aver mai visto uno psicologo, né un cartomante, né un indovino. Non aveva mai tentato il suicidio, né mangiando quintali di zucchero filato come il suo predecessore diabetico, né gettandosi sotto le zampe degli elefanti come quello precedente. Stranamente non affetto da alcun tipo di depressione, il clown Giuseppe era al contrario un elemento di stabilità emotiva nel Circo Razzoli, il cui terzo pilastro gestionale si basava su incertezze croniche, dubbi esistenziali e – occasionalmente – crisi di panico incontrollato. In mancanza di meglio, il clown Giuseppe era diventato suo malgrado una specie di punto riferimento dei circensi, che si accomodavano nella sua roulotte dopo lo spettacolo e si lasciavano andare a divagazioni e aneddoti personali, confessioni  e pentimenti, bevendo litri di caffé e mangiandogli tutti gli m&m’s senza chiedergli il permesso. A differenza della Tutù, il clown era una tomba e niente di quello che entrava dalle orecchie usciva dalla sua bocca, con o senza il rossetto. Giuseppe non capiva perché riuscisse a genere nei suoi colleghi un tale irrefrenabile desiderio di spalancargli le porte del loro animo. Certo sapeva ascoltare, o meglio si limitava ad annuire senza interrompere i fiumi di parole che venivano riversati nelle pause tra un m&m’s e l’altro. Certo anche che si interessava veramente a quello che gli dicevano, tanto che il problema altrui diventava, in fondo, anche il suo. Certo infine che il suo ego non creava eccessive barriere: un clown, in fin dei conti, non fa paura a nessuno, al massimo a se stesso. Tuttavia egli riteneva che tali ragioni non fossero sufficienti a spiegare il fenomeno nella sua interezza. Dopo molta riflessione si era convinto che la vera spiegazione stesse nel cerone. Era quella patina bianca che gli restava immancabilmente sulla faccia o sul collo, nonostante tutta la cura con cui si struccava, che scatenava la voglia di confessoine dei circensi. Perché loro non parlavano a lui come persona, ma al circo stesso come entità atemporale: fonte e scopo della loro vita.
Il ruolo di confidente privilegiato e il rispetto che vi era associato aveva messo il clown Giuseppe nel mirino del Dottore, sempre più geloso della sua considerazione all’interno del gruppo. Secondo una delle confidenze telodicomatunondirloanessuno della Tutù, Razzoli stava covando un astio profondo e ribollente contro Giuseppe, appena mascherato dai suoi comportamenti di maniera, che presto sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza. Nonostante Giuseppe non facesse nulla per per avere tale ruolo – o forse proprio a causa di ciò – il Dottore aveva intrapreso un’intricata campagna macchiavellica contro di lui, per metterne a nudo la presunta malvagità, l’incapacità professsionale, la plateale slealtà e l’innata disonestà. Fino a quel momento la campagna non aveva dato esiti di nota, a causa del comportamento irreprensibile del clown, che nel suo lavoro era paradossalmente molto serio.
La troupe si ritrovò fuori dalla roulotte principale e il Razzoli stava già per iniziare il lungo e pomposo discorso d’apertura,  un monologo interminabile generalmente ascoltato solo dalla Tutù, quando le sorelle siamesi – che in realtà erano cinesi – presero inaspettatamente la parola, o più precisamente urlarono in perfetta stereofonia “manca aclobata, manca aclobata”. Ad un’attenta verifica dell’Uomo Cannone – che a dispetto dell’apparenza da troglodita aveva uno spiccato senso sell’osservazione e una capacità analitica non indifferente – si certificò l’assenza ingiustificata di Rodion Romanovič Raskolnikov, alias Piuma Volante. Il russo era un acrobata affetto da una rarissima malattia – genetica per alcuni, psico-somatica per altri –  che gli causava forti crisi di vertigini quanto scendeva dal trapezio. Per ovviare a tale problema aveva deciso – come in un racconto di Kafka – di vivere perennemente appeso in aria, organizzandosi in maniera astuta per ricevere rifornimenti di cibo ed espellere i residui fisiologici. A differenza del racconto di Kafka, veniva tirato giù a forza quando era ora di smontare il tendone e per ovviare alle crisi di vertigini gli veniva data una cassa di vodka, a suo dire unico rimedio alla grave malattia da cui era affetto.
Il Dottore non riuscì a nascondere tutta la sua personale contrarietà per l’osservazione anticlimatica delle siamesi cinesi, ma si ricordò dei precetti enunciati nel Libro, con particolare riferimento al capitolo dedicato all’importanza dell’inclusione dei sottoposti nel processo decisionale caratterizzato da awareness e ownership (entrambi termini sottolineati con la penna rossa) e non se la sentì di continuare senza Piuma Volante. Ordinò a Giuseppe di andarlo a chiamare. Quando questi gli fece presente che Piuma si muoveva solo con il suo trapezio e suggerì di organizzare la riunione direttamente nel tendone, Razzoli ebbe un moto di stizza che causò un impercettibile movimento dei baffi artistici, che si raddrizzarono come la coda di un gatto che sta per graffiare. Pensò che era venuto il momento di accusare il clown pubblicamente di insubordinazione, ammuntinamento, tradimento e altri gravi delitti di cui si era ripetutamente macchiato. Ma notando che tutti assentivano, chi con un movimento della testa, chi a parole e chi – come il nano Brontolo – soffiandosi rumorosamente il naso, fece di necessità virtù e prese la testa della truppa marciando con passo deciso verso il tendone.
Il tendone del Circo Razzoli era da tutti considerato qualcosa a metà tra un vecchio amico e una persona di famiglia. In un ambiente in cui non si facevano grandi distinzioni, né a livello di genere, né di origine sociale, né addirittura tra esseri umani e animali, era normale che un tendone potesse rientrare a pieno titolo tra i membri della famiglia, e così era. Il tendone aveva un nome (Michelone), delle idiosincrasie (odiava il Veneto orientale e si afflosciava ogni volta che il circo si fermava a Jesolo), delle gelosie (più di una corda di sicurezza aveva misteriosamente ceduto quando veniva usata da uomini che corteggiavano la contorsionista), delle preferenze etniche (vietato far entrare sudamericani), una passione per i bambini biondi con i ricci (il poster della Nutella non cadeva mai a differenza di tutti gli altri), un odio per i pop corn e l’odore di olio bruciato (la macchina dei pop corn aveva più menomazioni di un mutilato di guerra) e molti aneddoti da raccontare. Privo di parola, almeno per i neofiti del circo, comunicava attraverso il rosso sbiadito e il bianco sporco della tela, cui si alternavano rattoppi multicromatici dovuti all’usura e al ripetersi inteminabile di montaggi e smontaggi.
I circensi passarono per la grande apertura di Michelone sotto la scritta Circo Razzoli e a fianco al ritratto di Gianbattista Eufebio Razzoli. Entrarono nello stesso ordine che avevano nella rassegna di fine spettacolo, quando tutti gli artisti si presentavano di fronte al pubblico, facendo il giro della pista e poi uscendo tra gli applausi, quando ce n’erano. Dopo il Dottore fu il turno delle sorelle campane (per una volta senza giraffe e quasi senza litigare), delle siamesi cinesi, del giocoliere Bartezzaghi che aveva dato fuoco alle sue clave e le faceva roteare sulla testa del nano Brontolo che non era affatto contento, della contorsionista thailandese aggrappata con le gambe alle spalle dell’Uomo Cannone, del corpo di ballo al completo (ovvero quattro pesone), da Antonio Martello seguito da Tutù e da Inverso, l’uomo che camminava sulle mani. Chiudevano la processione il clown Giuseppe e Denise l’addestratrice di gatti, che in molti vedevano come una coppia naturale. Un amore quasi obbligato, che – secondo fonti non verificate – non era sfociato solo a causa della terribile allergia al pelo di gatto di Giuseppe, per cui non era stato ancora trovato rimedio. Piuma Volante li aspettava appollaiato sul suo trespolo, ancora con il costume di scena cosparso di lunghe piume bianche e grigie che lo faceva assomigliare a un barbagianni.
Razzoli aspettò che tutti si accomodassero, chi sulle panche degli spettatori, chi per terra, quest’ultimi facendo particolare attenzione a scansare le enormi cacche di elefante che erano ancora dissemnate a macchia di leopardo. Ci volle un po’ di tempo prima che il rumore di passi e le voci di genti diventasse un normale brusìo di sottofondo, per poi evaporare in un silenzio sufficientemente formale perché il Dottore si decidesse a parlare. Si era procurato il microfono delle grandi occasioni, quello a forma di cono di gelato con le palline colorate e la panna montata finta. Ma appena lo accese partì la musichetta del circo a tutto volume ta ta ta da da dan da da ta ta ta da da dan da da e – per un riflesso pavolviano incontrollabile oltre che incondizionato – tutti si misero in moto  come se fossero le figurine di  un carrillon per bambini, chi sventolando i costumi impumati e chi mettendosi a girare sulla testa. La confusione era generale, perché ognuno si esibiva senza badare a quello che facevano gli altri, in una specie di baccanale circense improvvisato.
Se Razzoli avesse mantenuto una prospettiva d’insieme e avesse osservato con attenzione e sufficiente distacco la scena, si sarebbe reso conto che quel movimento spontaneo e incontrollato, vivente e spumeggiante, era probabilmente lo spettacolo più bello che il Circo Razzoli avesse mai mostrato durante l’intera sua venerabile esistenza. Ma si dà il caso che il Dottore fosse troppo indispettito dall’improvvisa anarchia e mancanza di rispetto per la sua leadership instituzionale per apprezzare il valore artistico della performance involontaria dei suoi circensi. Vedendolo sull’orlo del baratro isterico, il clown Giuseppe si tuffò a volo d’angelo sull’altoparlante come faceva nel suo numero acrobatico e staccò la spina, congelando il movimento dei suoi colleghi.  Rimasero immobili, cristallizzati in una posizione innaturale come nei film in cui, per un attimo, il tempo si blocca. Assieme all’immobilità giunse il silenzio e Razzoli fu costretto a ringraziare il clown – suo malgrado e a denti strettissimi.
“Siamo qui riuniti”, iniziò con tono papale, “perché abbiamo un problema”.
La Tutù annuì prontamente. La presenza di un problema la galvanizzava, ancora di più se in assenza  di una soluzione e possibilmente associato a conseguenze catastrofiche. Non era sprezzo del pericolo come in molti pensavano, forse facendosi influenzare dal lavoro di moglie del lanciatore di coltelli. No, la Tutù era semplicemente attratta, fin dall’infanzia, da tutto ciò che di più infausto ci potesse essere: disgrazie, malattie terminali, tragedie umane, cataclismi naturali, morte e distruzione. Doveva ricevere la sua dose giornaliera di notizie funeste, e non mancava un solo telegiornale. Aveva una predilezione particolare per gli incidenti aerei e si era abbonata al canale National Geographic solo per avere accesso a degli splendidi documentari che illustrano con dovizia di particolari, simulazioni grafiche e interviste ai sopravvissuti, tutte le possibili cause che possano contribuire ad abbattere un aereo in volo, possibilmente sopra un’area densamente popolata, causando disastri a catena. Quando le disgrazie non avvenivano, oppure si verificavano in luoghi troppo lontani per poterne sentire l’effetto, si sentiva obbligata a compensare con il suo personale intervento. Dove non c’era un problema, si poteva sempre crearlo.
“E il problema è...”
Il Dottore si fermò a riflettere. Nella concitazione generale aveva improvvisamente dimenticato la ragione per cui aveva organizzato il breistorning. E più si sforzava di ricordare, più la sua memoria retrocedeva.
“Il problema è...”, ripeté per guadagnare un po’ di tempo. Ma non a sufficienza, perché la memoria rimase bianca, candida come un nevaio d’alta montagna. Non riuscì a continuare. In molti pensarono che stesse applicando una nuova tecnica di management tratta da Come farsi ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del rispetto e abbozzarono uno sguardo d’intesa, oppure annuivano pensierosi. Solo la Tutù si era resa conto che Razzoli si era letteralmente imbambolato, quasi fosse caduto vittima di una seduta di autoipnosi: rigido e immobile come un’asse da stiro. Avrebbe potuto aiutarlo, fargli un cenno, oppure ricordargli a voce la ragione per cui la riunione era stata organizzata, ma non lo fece. Vederlo in piedi, con la giacca rossa e i bottoni d’orati, il trucco attorno agli occhi, il cappellone nero che nascondeva la calvizia incipiente, gli anelli d’oro alle dita, i pantaloni troppo stretti e i baffi che avevano perso la consueta baldanza, le dava un piacere intenso, il piacere del ridicolo altrui.
“Il problema è che non ci paghi”
La voce che proveniva dall’alto e l’accento russo lasciavano pochi dubbi sull’origne della lamentela. Piuma Volante era conosciuto per le sue rivendicazioni sindacali. La leggenda narrava che fosse discendente diretto di Trotski e che nelle sue vene scorresse senza sosta il più puro sangue bolscevico, almeno quando non veniva mischiato con il rimedio contro le vertigini. Il Russo era visibilmente contrariato e il suo trapezio oscillava irrequieto da una parte all’altra di Michelone. Per sottolineare le sue parole fece una serie impressionante di volteggi e salti mortali – tutti senza corda e senza rete di protezione – che avrebbero convinto il più scettico degli oppositori capitalisti.
“E’ vero, dacci i soldi Dottore. I soldi, ladro!”
Il volteggio era stato superfluo, non era necessario convincere nessuno. La questione dei soldi era una ferita costantemente aperta presso il Circo Razzoli e fonte di costanti mugugni e di innumerevoli spunti complottistici. C’era chi accusava il Dottore di non dichiarare parte dei ricavi, soprattutto quelli derivanti dallo zucchero filato e dalla vendita di fotografie, e chi invece lo accusava di non fare investimenti, obbligando Michelone – che ormai aveva più rattoppi di una bambola di pezza – a fare gli straordinari invece di potere andare in pensione nel paradiso dei teloni da circo, dove i bambini non fanno i capricci e i pagliacci non si tolgono mai il trucco, neanche per andare a dormire. Tutti si trovavano per una volta concordi sul fatto che la paga era da fame e le roulottes dei veri catorci.
La verità era per una volta molto più banale. Per il circo c’erano sempre meno spettatori, la concorrenza della famiglia Borlotti era spietata – il loro numero con i leoni che ballavano con i pattini a rotelle era un vero fenomeno – e i costi di girare per la pianura Padana con elefanti e tigri, leoni e giraffe era semplicemente proibitivo. Ma il senso dell’onore del Dottore non gli permetteva di ammetterlo, non solo pubblicamente, ma neanche a se stesso, per cui era ricorso a ogni tipo di stratagemma per occultare la verità, anche solo parzialmente.  
“I soldi, i soldi”, l’eco sembrava propagarsi all’infinito e in molti sospettavano che Michelone facesse la sua parte, usando la voce degli altri per esprimere la sua opinione.
“Smettete di lamentarvi buoni a nulla”. La risposta non era venuta dal Dottore, ormai ridotto all’impotenza, ma dalla Tutù, che un po’ si vergognava per averlo lasciato solo in balìa del gruppo.
“Taci, tu che ci vai a letto”.
La frase veniva dal basso e l’accento sardo costituiva un’ottima pista per identificare nel nano Brontolo il probabile proprietario intellettuale del pensiero.
“Cos’hai detto nano?”
La risposta non tardò ad arrivare e non fu necessario fare complicate illazioni per capire che Antonio Martello non aveva apprezzato.
“Che tua moglie se la fa con il capo, almeno un paio di volte a settimana, quando tu affili i tuoi coltelli”, rispose Brontolo, cui i concetti astratti stavano un po’ stretti e aveva la tendenza ad accompagnare le parole con dei gesti esplicativi. Stava ancora mimando una pratica sessuale a metà tra la fellatio e il cunnilingus che volò il primo coltello. Ma il nano era tanto basso quanto agile e soprattutto dotato di un’inesauribile capacità di sopravvivenza. Il coltello si conficcò nella panca di legno su cui era seduto e un secondo dopo Brontolo aveva già trovato rifugio in mezzo al gruppo, sapendo che Martello non avrebbe osato tirare coltelli nella folla.
“Il nano ha esagerato, ma ha ragione”, disse la contorsionista thailandese con la testa tra le gambe, proprio mentre Martello si stava calmando. Il ritorno di fiamma fu istantaneo, più veloce della bocca di un drago, anche se questa volta non se la prese con la piccola thailandese, ma con sua moglie Mariolina Biggetta detta Tutù, donna della sua vita, almeno fino a quel momento. I coltelli partirono all’unisono, sei lame volteggianti nell’aria che sapeva di sterco d’elefante. Si conficcarono all’unisono, facendo un unico tac contro il legno di frassino della parete divisoria tra il settore premium e quello children. Partirono urli, accuse di omicidio, qualcuno stava già chiamando l’ambulanza e la polizia, quando si accorsero che la Tutù era integra, nessun pezzo mancante, neanche una goccia di sangue. In compenso i coltelli l’avevano bloccata contro la parete di legno e non le permettevano il minimo movimento.
“Tu aspetta lì Tutù, che poi ne parliamo, prima devo chiarirmi con questo stronzo”, e si lanciò rosso di rabbia contro l’Uomo Cannone che cadde riverso nello sterco d’elefante e non capiva perché Martello l’iracondo ce l’avesse con lui.
“Bastardo!”
Martello aveva afferrato l’Uomo Cannone alla gola e stringeva con tutta la sua forza, che non era molta, visto che l’Uomo Cannone si alzò portandoselo dietro, tanto da farlo sembrare una specie di mantello che gli pendeva dal collo. Senza i suoi coltelli Antonio Martello era come Superman in presenza di criptonite: le gambuccie corte, il petto rientrante, la schiena ricurva, praticamente un fuscello da gettare al vento. Un movimento delle spalle del troglodita e Martello atterrò sul truciolato della pista. Con il rigore analitico che lo contraddistingueva, l’Uomo Cannone gli chiese ragione di tanta rabbia, al che lui rispose:
“Non potevo certo prendermela con la tua fidanzata contorsionista no?
Molto tradizionalista, Antonio Martello seguiva un suo personalissimo codice d’onore, in cui le donne erano sacre ed ogni obiezione alle loro azioni veniva riversata contro l’uomo di riferimento, in questo caso il Cannone.
“Nooooo!!!”
L’urlo giunse istantaneo, un vero grido di panico. Erano mesi che tutti mantenevano il segreto sulla relazione tra la microscopica thailandese e il ciclopico Uomo Cannone per paura della gelosia di Michelone. L’ultima volta che aveva sospettato che una sua contorsionista lo tradisse con qualcuno, c’era stato un terremoto. Non un terremoto metaforico o fittizio, ma un vero terremoto. Concentrato nell’area in cui il circo era installato, Michelone aveva causato un terremoto potentissimo, che non aveva causato vittime solo per miracolo. Gli spettatori erano stati sbalzati dalle panche e avevano nuotato a mezz’aria come astronauti in una navicella spaziale, poi erano precipitati violentemente, atterrando sulle gradinate e la pista. Rimasero riversi e doloranti nelle posizioni più disparate, come tanti birilli abbattuti da una palla da bowling. L’intera struttura aveva oscillato paurosamente, producendo un boato simile all’urlo di un orco, i cavi di metallo fibravano così intensamente da produrre un suono come di violino, lungo e vibrante, armonico e struggente come un accordo in re minore. In molti avevano pensato che quella era la vera voce di Michelone, che stava riversando in un canto triste e disperato tutto il suo amore impossibile per la contorsionista.
“Nooooo”, ripeterono in coro gli artisti, soprattutto quelli che avevano assistito all’ultimo terremoto.
In preda al panico, ognuno reagiva a modo suo. C’era chi – come l’Uomo Cannone e il Dottore – era rimasto tetanizzato, bloccato nella posizione iniziale e non riusciva a muoversi. Di questo gruppo faceva parte, suo malgrado, anche la Tutù che era ancora bloccata dai coltelli del marito, ma che non si sarebbe mossa per nulla al mondo: il terremoto di Michelone era stato il momento più bello e intenso della sua vita e non se lo sarebbe persa per nulla al mondo.
C’era chi aveva preso la via della fuga, anche se nella concitazione del momento si era sbagliato di direzione e continuava a sbattere contro gli altri che si muovevano in direzioni opposte. Neanche un acceleratore di particelle avrebbe potuto creare più scontri del moto cieco e casuale dei circensi presi dal panico. Finirono per creare un flusso circolare, come quello dei cavalli dell’esibizione equestre, non si sa se nell’illusione che una via d’uscita si potesse aprire all’improvviso oppure semplicemente assecondando il movimento degli altri.
Ma la maggioranza scelse una terza alternativa, istintiva come le precedenti, che era quella dell’aggressione e della violenza gratuita. Bartezzaghi il giocoliere iniziò a scagliare le clave infuocate contro il gruppo che correva in cerchio, dando prova di grande precisione nel lancio, abbattendone una buona parte e incendiando i vestiti dei superstiti. Il nano Brontolo aveva recuperato il coltello con cui Antonio Martello aveva tentato di colpirlo e mostrava chiare intenzioni di vendetta, oltre che una velocità di corsa ben superiore alle aspettative. Le quattro sorelle equilibriste – la cosa non stupirà – diedero fondo a tutto il loro bagaglio d’esperienza nella sottile arte della lite familiare: non si distingueva più di chi era la mano che tirava i capelli dell’altra o quale bocca mordeva quale polpaccio. Volavano insulti in salernitano stretto, spesso indistinguibili. Volavano in aria ciocche di capelli e pezzi di vestiti come stelle filanti e coriandoli a carnevale. Anche le siamesi ebbero una violenta reazione e sfogarono in un lampo tutta la frustrazione di una vita passata ad essere l’una lo specchio riflesso dell’altra. Litigavano in mandarino (quella di destra) e in cantonese (quella di sinistra), rinfacciandosi dispetti e accusandosi di essere stata l’una la causa della sciagura dell’altra. Dalle parole passarono rapidamente ai fatti: ognuna comandava un braccio, ma stranamente non quello più vicino alla sua testa, ma quello opposto. Quindi la siamese di destra tirava l’orecchio dell’altra con il braccio sinistro, mentre la siamese di sinistra usava il braccio destro per cercare di strangolare la sorella, rendendosi però conto della difficoltà di effettuare quell’operazione con una mano sola.
Oltre all’acrobata, che assecondava il movimento degli altri volteggiando pericolosamente da una parte all’altra del tendone, solo due persone non stavano partecipando alla grande commedia che stava andando in scena sulla pista del Circo Razzoli. Giuseppe il clown e Denise la domatrice di gatti rimanevano seduti sulle gradinate, assistendo allo spettacolo più bello che avessero mai visto: le pupille dell’altro. Si conoscevano da molto tempo, da quando Denise era scappata da casa e aveva cercato una sistemazione di fortuna, lavorando prima dietro le quinte e vendendo noccioline e poi creando il suo numero, nato quasi per caso giocando con i molti gatti che adottava in ogni città. Denise doveva avere diciassette anni quandò Giuseppe la vide per la prima volta e lui pochi anni di più. Nonostante si conoscessero ormai da più di quindici anni, Giuseppe di lei sapeva pochissimo, anche perché era l’unica – oltre al nano Brontolo – a non visitarlo regolarmente per le sedute di confessioni e consigli. In realtà Denise non parlava con nessuno, ed evitava qualsiasi tipo di comunicazione che non fosse puramente professionale. Per tutti era un mistero e le voci più maligne si erano diffuse per spiegare il suo strano comportamento, che in realtà era semplicemente causato da una timidezza estrema, quasi patologica. Denise aveva accettato la sua condizione e non si preoccupava di mettere a tacere i pettegolezzi. Si occupava solo dei suoi gatti, che non parlavano ma a cui comunicava ciò che gli altri non avrebbero capito.
Quanto al clown Giuseppe, non si faceva illusioni. Denise gli era sempre piaciuta, ma era stato scottato troppe volte da colleghe del circo – acrobate, contorsioniste, pagliacce, cavallerizze, domatrici di elefanti e di leoni, mangiatrici di spade e giocoliere – da poter credere che Denise fosse una persona prima di essere una circense. Perché gli artisti circensi non sono esseri umani, almeno non nel senso antropologico del termine. Da un punto di vista fisiologico non si distinguono molto dai loro simili: mangiano, bevono, sudano, ingrassano e dimagriscono. Ma da un punto di vista comportamentale sono una razza a parte, incompresibile anche per uno come Giuseppe – circense figlio di circensi – che in quell’ambiente era nato.
Né Giuseppe né Denise riuscivano a staccare lo sguardo da quello dell’altro. Per la prima volta la domatrice di gatti riusciva a guardare qualcuno dritto negli occhi. Prima aveva sempre guardato lo spazio di pelle tra le due ciglia, quello che separa gli occhi, poco sopra al naso. Occasionalmente poteva guardare un occhio, oppure l’altro, ma i due occhi allo stesso tempo mai. Quanto a Giuseppe, per la prima volta da molto tempo la vedeva senza il suo costume di scena: niente perline, né calze argentate e scintillanti. Soprattutto nessuna traccia di quel trucco che sembrava una piuma d’uccello esotico, con delle strisce verdi, gialle e azzurre a formare un’onda che si perdeva nelle tempie. Si rese conto di quanto fosse bella, la pelle chiara e i capelli castani, le sopracciglia fine e le labbra di un rosa quasi etereo. Giuseppe la stava guardando e la stava ascoltando. Non le parole, che anche quel giorno rimasero chiuse nel suo petto, ma il battito del suo cuore. In mezzo alla gazzarra che li circondava – tra urla, spinte e botte fratricide – percepiva perfettamente il pum pum del suo cuore: lento, regolare, vero.
“Giuseppe, Giuseppe!”, lo chiamò il Dottore dal centro della pista, con la giacca sbottonata e il farfallino disfatto. Aveva perso il cappello e il riporto si era scomposto, lasciandolo con una lunga ciocca di capelli di un nero innaturale che pendeva dal lato sinistro della testa.
“Giuseppe falli smettere, ti prego!”, la sua era più di una domanda d’aiuto. Era una vera supplica da uomo disperato, da chi non ha più alternative né speranza, che ha perso la faccia e che sa che non la riavrà indietro.   
Il clown Giuseppe esitò. Sapeva che aveva il potere di farli smettere. Avrebbe potuto prendere il microfono e iniziare il suo spettacolo come ogni sera e quello sarebbbe probabilmente bastato a fermare la lotta che si stava svolgendo. Fu tentato di rispondere alla supplica del Dottore, stava quasi per alzarsi, ma si trattenne. La sua non era vendetta contro il Dottore. Per quanto Razzoli lo detestasse, lui non ricambiava quell’odio. In Razzoli vedeva un uomo solo, costretto a recitare la sua parte perché gli altri continuassero a recitare la loro vita. In qualche modo ammirava la sua dedizione alla causa, il suo stoicismo e la sua lotta titanica e antistorica.
Infine si alzò, prese Denise per mano e uscirono insieme dal tendone. Il Direttore si accasciò sulle ginocchia e si mise a piangere, come un bambino nella tormenta. Il trucco si sciolse in dense gocce nere che andarono a macchiare la giacca rossa dai bottoni dorati.
Pochi minuti dopo faceva la sua entrata Leonardo il leone, seguito da Michele, Joseph, Linnette, Rambo e Rachele. I sei leoni si posizionarono in semicerchio all’entrata di Michelone, bloccando al tempo stesso ogni via di fuga. La reazione non fu immediata, molti erano troppo intenti a picchiarsi, mordersi e insultarsi per rendersi conto di quello che stava succedendo. Fu un processo piuttosto graduale, come una canzone che finisce in un decrescendo progressivo, fino a che anche l’ultima nota scompare nel silenzio. Infine erano tutti in piedi in attesa che succedesse qualcosa. In molti guardarono il Dottore, ma era chiaro che in quello stato pietoso non sarebbe stato in grado di domare neanche a un topo.
Come in una coreografia attentamente studiata, i sei leoni si distribuirono a cerchio attorno alla pista e iniziarono a camminare lentamente verso i circensi, con le fauci spalancate e lo sguardo di chi ha visto un’abbondante colazione. I circensi si strinsero verso il centro, sempre più vicini gli uni agli altri, fino a che lo spazio terminò e furono costretti ad abbracciarsi. Ma i leoni non cessavano di progredire, con lento passo sadico. Fu Piuma Volante a risolvere la situazione, lanciando una corda dal suo trapezio, a cui si aggrappò immediatamente la contorsionista thailandese, seguita dall’Uomo Cannone, Brontolo il nano e Bartezzaghi il giocoliere. L’ultimo a salire fu il Dottore, incerto fino all’ultimo tra affrontare una morte degna oppure scegliere una salvezza ignobile. Decise per la seconda.
In pochi secondi l’intero circo era appeso al trapezio di Piuma Volante. Un miracolo della fisica, visto che i cavi dovevano sopportare cento volte il peso per cui erano state costruiti, ma era chiaro che Michelone ci stava mettendo il suo zampino. I circensi rimanevano appesi con le mani di chi li precedeva, in una piramide umana sospesa. L’unico ad usare le gambe invece che le braccia era stato Inverso, che non volle rinunciare ai suoi principi neanche nel pericolo.
Quando la piramide umana smise di oscillare, il clown Giuseppe apparve all’entrata, con ancora in mano la frusta con cui aveva fatto entrare i leone. Era perfettamente struccato, non una traccia di cerone gli si poteva vedere in faccia o sul collo. Era vestito di un completo grigio, una camicia bianca perfettamente stirata, una cravatta blu e un cappello alla Humphrey Bogart. Al suo fianco c’era Denise, con un tailleur beige, un cappello grigio dalla forma arrotondata, la gonna al di sotto del ginocchio e scarpe nere a mezzo tacco.  Giuseppe sollevò il bavero della giacca come se avesse freddo, prese il microfono a forma di cono gelato, lo accese, aspettò che la musica da circo terminasse e disse con una voce che parve non essere sua: “This is the beginning of a beautiful friendship”.
Cinse la vita di Denise e uscirono di scena, lasciando a Michelone il compito di chiudere la tenda dietro di loro.

sabato 8 novembre 2014

Doppiogioco (racconto)

“Il cane mi ha riconosciuto”, pensò John. Ne era certo. Quella grossa salsiccia con le zampe troppo corte e gli occhi dissociati sapeva chi era. Un bulldog francese, con l’andatura sbilenca da pachiderma, l’aveva scoperto. Prese il quaderno, girò la pagina, scrisse la data e annotò: “George, il cane, sa”. Poi con la penna rossa “problema potenziale”. Richiuse il quaderno, girò i tacchi. Per oggi aveva finito. Quel suo lavoro da crotch sniffer[1], gli sarebbe forse mancato, uno dei pochi.
Da quando il Big Boss aveva fatto partire il cronometro della sua vita – circa cinquantanni prima – aveva sempre adorato le porte girevoli, assieme alle scale mobili e agli ascensori, ma soprattutto le porte girevoli. Forse quella era l’unica cosa decente dell’Hotel Continental, per il resto un condensato di tristezza e di decadenza senza pari, quasi una versione architettonica di se stesso. Il vento riuscì a dargli un’ultima sferzata, coprendolo di grosse gocce sporche, prima che il vetro rotondo lo accogliesse all’interno. Nell’altra metà della porta, quella che risputava i clienti sul marciapiede, incrociò lo sguardo di Daniel e della piccola Rachel, che continuò a spingere la porta fino a tornare dentro, mentre il nonno Daniel la stava a guardare da fuori, sotto la pioggia, con l’aria stupita e paziente di un pesce in un acquario. Rachel avrebbe continuato a girare all’infinito dentro la porta girevole, se la mano del nonno – piuttosto artritica ma all’occorrenza ancora capace di grandi prese al volo  – non l’avesse estratta con gesto di antica sapienza. Il vecchio Daniel fece un cenno del capo che lui ricambiò, mentre Rachel aveva già girato lo sguardo verso un tombino troppo pieno, attorno a cui si era formata una pozzanghera su cui galleggiavano vari tesori il cui vero valore solo lei riusciva ad apprezzare.
John si tolse l’impermeabile grigio d’ordinanza. Indossava anche un cappello a falde larghe che lo faceva assomigliare ad un fungo, sbiadito e spampanato come un gallinaccio secco.
“Buongiorno”, gli disse l’uomo della reception.
“Buongiorno” rispose, non sapendo se si trattasse di un’affermazione o di una domanda. “117” – aggiunse in fretta – anche se l’uomo sapeva perfettamente in quale room angusta e squallida stava passando le sue notti, sempre da solo, senza neanche chiedere il servizio occasionale di Greta, la prostituta istituzionale dell’Hotel Continental: anni quarantacinque, capelli alternanti tra il rosso e il nero (rispettivamente fuoco e corvino), all’anagrafe Marianne Polanski, divorziata, madre di Rachel Polanski di anni sei e figlia di Daniel Polanski, nato a Cracovia nel 5691 del calendario ebraico, approdato a New York nel 1946 di quello gregoriano, dopo un soggiorno di piacere a Treblinka, prodigio del violino a sette anni, oggi conosciuto nel quartiere come il guardiano del parcheggio.
John prese la chiave e non rispose all’invito per una conversazione casuale – neanche troppo velato a dire il vero – da parte dell’uomo della reception. Non gli piaceva quell’uomo basso e pelato, costantemente sudato, dal naso a patata e dai modi troppo affabili per essere genuini. Regola numero uno: mai fidarsi degli sconosciuti, in particolare i receptionists e i tassisti, soprattutto se sembra che siano stati disegnati da un fumettista con poca fantasia come il prototipo dell’informatore infido.
Indeciso tra l’ascensore e un craving ricorrente, optò per il secondo. Si sedette, anzi si abbandonò sulla panca che costeggiava il muro formando un angolo a novanta gradi. Regola numero due: sempre sedersi con le spalle alla parete, meglio se in un angolo: i proiettili difficilmente trapassano i muri e da quella posizione si vede everything. Appoggiò il quaderno sul tavolo, si slacciò la cintura dei pantaloni lasciando le trippe in momentanea libera uscita, protette dalla copertura psichedelica della tovaglia a fiori viola su sfondo giallo.
“Un caffé lungo, senza zucchero, con latte freddo a parte, e magari uno di quei biscotti all’amarena che avete sempre”, anticipò la ragazza, segno che aveva una buona memoria o che lui era piuttosto prevedibile.
Alzò lo sguardo su Michelle, o almeno parte di lei. Le sue pupille si appoggiarono per un tempo un po’ troppo evidente sui seni di lei, prima di raggiungere gli occhi color nocciola. Deformazione professionale quella di osservare. Delle tette così avrebbero meritato uno studio più accurato, scientifico, ma le regole della buona creanza gli imponevano una certa discrezione, anche in quel contesto.
“Esatto” rispose, ed esitò tra farle dei complimenti generici e un po’ galanti da vecchio bavoso o a dirle qualcosa di divertente e frizzante, inaspettato, che facesse trapelare il fascino incantatore di cui non disponeva. Finì per ripetere “esatto, esatto”, passandosi le dita tra collo e camicia, più pappagallo che aquila reale.
Michelle tornò dopo poco con il caffé, il milk e i biscotti. Invece di scomparire dietro al bancone come al suo solito, gli si parò davanti guardandolo e sorridendo. Quello sguardo così diretto, inaspettatto (e più che altro non sperato), ebbe il potere di bloccarlo in una postura innaturale: a metà tra il colpo della strega e una posizione di yoga venuta male. Fu Michelle a far ripartire il tempo. Tirò indietro la sedia e si accomdò di fronte a lui, con un gesto di una naturalezza devastante.
“Non le dispiace se mi siedo un attimo? Sono a fine turno”. Ma la sua non era stata una vera domanda. Si era seduta e basta. Si era anche messa in bocca uno dei suoi biscottini all’amarena e lo masticava senza sensi di colpa apparenti.
“Nessun disturbo”, rispose nascondendo a stendo il turbamento che gli causava quella brusca rivoluzione nelle sue abitudini collaudate. Erano due mesi che stava al Continetal Hotel e da due mesi prendeva la cena alle otto e ogni tanto un caffé, senza parlare con nessuno. Regola numero tre: mai mischiare lavoro e piacere, soprattutto se ci sono di mezzo due tette perfette.
“Vorrei chiederle un piacere se mi permette” continuò Michelle arrotoloandosi i capelli neri e ricci in uno chignon improvvisato e chiuso con una matita, “anche se non ci conosciamo bene, il mio sesto senso mi dice che mi posso fidare di lei”.
Regola numero quattro: quando una donna troppo bella ti fa dei complimenti, non esitare: scappa immediatamente e non guardare indietro.
“Se posso...” – rispose John inspirando aria come un uomo appena uscito da un’immersione e inarcando le spalle involontariamente quasi a voler generare un abbraccio virtuale.
“Vede, io scrivo” continuò Michelle accavallando le gambe e accennando il gesto represso di chi vorrebbe accendersi una sigaretta ma non può. “Sto facendo un corso di scrittura all’università ed ecco...” e fece una pausa. Di solito così decisa e articulated, gli parve che Michelle avesse un attimo di esitazione.
“Ed ecco?” – pensò lui, in sospeso come un pupo siciliano.
“...ed ecco, ho iniziato a scrivere un racconto. Il professore ci ha detto che dobbiamo ispirarci allo stile di un romanzo celebre e io ho scelto A portrait of the artist as a young man. Mi piacerebbe che lei lo leggesse, vorrei la sua opinione”.
E senza aspettare la sua risposta, con la stessa naturalezza con cui si era seduta poco prima, estrasse dalla borsetta di tela multicolore un quaderno identico al suo: copertina di pelle nera, con una sottile linea dorata, fina, quasi invisibile, a seguire i contorni degli angoli smussati.


La mamma della Giovanna si era arrabbiata. Aveva urlato dalla finestra e l’urlo era cattivo. La cena era già in tavola e la Giovanna doveva partire subito. Allora le ho detto OK, che andava bene, che facevamo come diceva lei. Lei mi ha sorriso, poi mi dato un pugno sul braccio, uno di quei pugni terribili che mi lasciano il segno per dei giorni, ma questa volta non mi ha fatto troppo male. Poi è partita per le scale senza salutare. Non saluta mai la Giovanna e non dice mai grazie. Ma io so che lei sta bene con me. Sennò perché verrebbe a giocare tutti i giorni a casa mia? Era ora di cena anche per me. Allora ho messo via tutti i giochi, ho smontato le rotaie e rimesso la motrice nel nylon e poi nella scatola. E’ importante mettere la motrice nel nylon, sennò prende l’umidità e poi non va più. Questo me l’ha detto il Giorgio che sa tutto sui trenini perché li vende. Il trenino me lo ha portato Babbo Natale, ma è uguale a quello che ha il Giorgio in vetrina, per cui io gli credo.
Io volevo fare una storia come nel film che ho visto la settimana scorsa, dove c’era un attore con gli occhi blu che ha un cavallo e una pistola e che uccide i nemici, anche se non si sa se lui è buono o cattivo, perché a me mi sembrava buono ma gli danno tutti la caccia come ai cattivi e poi ruba e quindi è un ladro e forse quindi è cattivo.
Ma la Giovanna, che ha due anni più di me, mi ha detto che no, quella era roba vecchia. I cowboy sono roba da bambini mi ha detto. Io le ho risposto che io ero un bambino, ma lei non mi ha ascoltato. Il trenino con gli indiani e i bisonti e i cowboy è una roba da stupidi diceva. Qui bisogna fare un’altra storia. Dobbiamo fare una storia su New York e sulle spie internazionali. Se vuoi tu puoi fare il protagonista e io la donna irresistibile
A me piacciono le storie di spie e anche fare il protagonista, anche se la Giovanna non me lo fa quasi mai fare. Allora io le ho detto che forse lei aveva ragione, ma che non avevamo niente per costruire una città e che il trenino era un trenino del Far West, tra l’altro con la motrice a vapore anche se sappiamo che in realtà va a elettricità. Avevamo anche la diligenza e un paio di indiani che mi ha regalato mio fratello, insomma quasi tutto quello che ci serviva, tranne le tende che le ho rotte l’anno scorso e la mamma le ha buttate.
Insomma ho accettato di fare come voleva lei, anche perché non c’era tempo per discutere ancora, sua mamma non scherza, veramente. E poi alla fin fine la Giovanna ha sempre ragione, ma ogni tanto voglio avere ragione anch’io. Comunque l’idea è bella. So già dove trovare uno scatolone grande ma non troppo profondo. Lo giriamo e lo mettiamo sopra al trenino. Poi basta fare dei buchi sul piano per le fermate e abbiamo già la metropolitana. Per i grattacieli, perché New York è piena di grattacieli, non ci ho ancora ben pensato, ma forse li possiamo costruire usando le scatole delle scarpe, oppure con i Lego, anche se la Giovanna odia i Lego, non ho ancora capito perché. L’albergo ce l’ho già. Prima di andare a letto ritaglio la scritta Hotel Continental dalla scatola della cuffia per la doccia che usa la mamma e poi la incollo su uno di quelle borracce di plastica che usava mio fratello quando giocava a calcio. Poi taglio un bicchiere di plastica in verticale per fare una porta girevole. Gli alberghi mi sembra che hanno tutti o le porte girevoli o le porte automatiche.
Per la storia non so bene, ma pensavo che uno dei personaggi poteva essere la mia compagna Rachele, quella che non può mangiare i toast al prosciutto e formaggio, anche se non è allergica, perché sennò suo papà si arrabbia. E poi magari il bidello Daniele, che mi sta molto simpatico perché mi fa gli scherzi, ma non sono cattivi, sono scherzi buoni che mi fanno ridere, anche se ha l’aria sempre un po’ seria. E poi magari la Greta, quella del negozio degli alimentari, tutta rotonda come un bigné, che mi regala le caramelle di nascosto, anche se la mamma poi me le prende e non me le ridà perché dice che fanno male.  Pensavo anche allo zio Mario, che però non mi sta molto simpatico perché mi chiede sempre se ho la fidanzata e mi fa pochi regali.
Comunque devo aspettare la Giovanna. Tanto ogni volta che ho un’idea dice di no, anche se a volte prima dice di no e poi alla sua idea aggiunge la mia, o almeno una parte, ma lei non vuole ammetterlo e io smetto di dirglielo, perché tanto so che è vero, e forse anche lei, ma non serve a niente arrabbiarsi se abbiamo tutti e due ragione. E poi le storie che fa la Giovanna sono veramente belle, c’è sempre qualcosa di strano, ma anche bello e non si sa mai come vanno a finire.


John era seduto sul letto disfatto, lo sguardo fisso sul termosifone spento, stava aspettando una fine che stranamente tardava a venire. Vent’anni prima non ci sarebbe stata attesa, evidente segno che l’Agenzia stava diventando un labirinto di burocrazia. Ormai bisognava chiedere il permesso anche per andare al cesso. Infine, quasi rispondendo alle sue suppliche, suonò il telefono. John non rispose, lo lasciò intonare l’inno nazionale cinque volte prima che abdicasse. Ma poi riprese immediatamente. Altri cinque inni e poi altri cinque ed altri cinque, un vero hangover di nazionalismo. Dall’Agenzia non demordevano. Si decise a rispondere.
“Ma che cazzo combini? E perché non rispondi al telefono?”
“Ero al cesso”, mentì John.
“E a me checcazzo me ne frega. Se devi cagare portati dietro il cellulare”.
“OK Capo, prendo nota”.
“E smettila di prendere per il culo testa di cazzo! Ma ti rendi conto di cos’hai combinato?
Le domande retoriche erano la grande specialità del Capo, alias Joseph K. Conrad, esperto di esoterismo e di controllo delle anime, grande cavalcatore del lato oscuro della forza, modesto giocatore di golf e pessimo giocatore di poker, oltre che vice-direttore dell’Agenzia. Da quando John aveva memoria, era sempre rimasto allo stesso posto, con ogni cambio di stagione, con il bello e il cattivo tempo, come il nero che sta bene con tutto. Eppure era sempre rimasto vice di qualcuno, necessario ma non sufficiente.
“Riassumiamo”.
E i riassunti erano la sua passione personale, a cui associava una memoria di ferro, dettagliatissima, proverbiale e inversamente proporzionale alla sua intelligenza.
“Ti dò l’incarico che potrebbe ricoprire un qualsiasi poliziotto di quartiere, praticamente anche un cretino pescato a caso nell’oceano atlantico dei cretini”.
“Sì”, John non trovò altro da dire, si trattava di un’evidenza.
“Insomma ti mandiamo ad annusare la passera della moglie del più grande oligarca dello Strombokistan, per ricattarla e costringerla a lavorare come informatrice per noi. La cosa non è difficile perché quella scopa più di una donna delle pulizie”.
Amante delle barzellette, meglio se sporche o razziste, sfortunatamente per lui il suo originale senso dell’umorismo non era giustamente apprezzato nell’ambiente, tranne che dai suoi fedelissimi yesmen.
“E tu ti nascondi per bene, la segui dappertutto, prendi nota, ti preoccupi pure che quel cane del cazzo che sembra una salsiccia ti abbia scoperto. E cosa fai?”
Cosa faccio? – pensò John quasi distrattamente. Aveva la riposta a quella domanda. Guardò la stanza squallida di quell’albergo di terza categoria. Chi l’avesse visto lo avrebbe trovato un bruco insignificante nel cuore della Grande Mela Marcia.
“Tu ti fai scambiare l’agenda con tutta l’informazione da un’agente sotto copertura, probabilmente russa, che la starà già utilizzando. Una cosa da B-movie degli anni settanta, cazzo! Ma non è tutto”.
Effettivamente non era tutto. Mancava la ciliegina sulla torta.
“Visto che sei nato nella preistoria, hai fatto la scuola con i dinosauri e hai visto il primo computer che eri già sposato e divorziato, continui a utilizzare gli appunti di carta e per di più sempre sull’agenda delle tre missioni precedenti. Il che include, se non mi sbaglio...”.
John escluse che potesse sbagliarsi. Il Capo non ometteva il minimo dettaglio quando era ora di cazziare.
“...se non sbaglio ripeto, tutti gli elementi chiave dell’operazione Pokemon, l’identità degli informatori Pantera Rosa e Paperino, oltre a tutti i codici criptati dell’operazione Lady Oscar, ovvero quanto ci sia di più sensibile per il nostro governo allo stato attuale. Ho dimenticato qualcosa?”
Non aveva dimenticato niente. E per una volta aveva anche ragione quello stronzo presuntuoso e volgare. La propria posizione era indifendibile, un condannato a morte attaccato al lettino dell’iniziezione letale, dopo che l’ultimo appello è stato respinto dalla Corte Suprema.
“Però il racconto che mi ha lasciato è proprio bello”, aggiunse John.
“Che racconto, di cosa stai parlando?”
“Nell’agenda che ha scambiato con la mia, quella uguale alla mia, c’era effettivamente un racconto. L’ho letto, a me piace, è ispirato ad un romanzo di James Joyce. E’ forse anche un po’ autobiografico, mi ricorda un po’ la mia infanzia. Mi chiedo se l’abbia scritto veramente lei oppure abbiano reclutato un writer. Anch’io giocavo con i trenini e avevo un’amica del cuore”.
“Sei licenziato”.
“Lo so”.
Il Capo riattaccò, John si distese sul letto, osservando l’immobilità assoluta del ventilatore che pendeva arrugginito dal soffitto. Un ventilatore che avrebbe potuto attivare con un semplice gesto della mano. L’interruttore era posizionato a fianco al comodino, facilmente raggiungibile. Spesso la differenza tra vivere o morire, vincere o perdere, sta in un gesto semplice, quotidiano. E prima ancora che nel gesto, sta nella decisione di fare quel gesto. Ma rompere l’immobilità è quanto di più rivoluzionario ci sia per un soggetto della specie homo sapiens sapiens.
Bussarono alla porta. John la aprì senza guardare chi fosse. Entrò il vecchio Daniel che prese la poltrona e si sedette di fronte al letto appoggiandosi con lentezza allo schienale.
“Allora?”, chiese Daniel.
“Tutto bene”, sispose John.
“Sei sicuro?”
Positive. Pensa che io sia un rincoglionito che ha fatto la cazzata al bordo della pensione. Sono mesi che gli ho instillato questo dubbio”.
“Veramente sicuro?”
John si limitò a osservarsi scrupolosamente le unghie curatissime e non aggiunse altro.
“Se lo dici tu ci credo”, aggiunse il vecchio quasi per scusarsi, poi continuò con tono professionale, “I soldi sono sul conto, i codici d’accesso li hai già, cambiali nelle prossime 72 ore.
“Già fatto”.
“Perfetto”, il vecchio fece una piccola pausa quasi a controllare la check-list che aveva memorizzato, poi aprì la cartella di pelle che aveva con sé. “Ecco il biglietto con partenza da Mexico City, queste sono le chiavi della macchina, il serbatoio è pieno. Qui ci sono un paio di passaporti se ne dovessi avere bisogno, un bonus in caso ti vengano a cercare, decisione della ragazza, l’ho già ringraziata da parte tua”.
John prese i passaporti, li osservò controluce, passò le dita sulle pagine vuote e su quelle con alcuni timbri. Era un lavoro ben fatto, perfettamente identici agli originali, molto credibili.
“Quasi dimenticavo”, aggiunse il vecchio quasi imbarazzato, “la ragazza ti fa i complimenti. Dice che non ha mai visto qualcosa del genere, un attore geniale ha detto, really”.
John non accennò una risposta, non fece un gesto. Per essere naturali è necessario credere quello si deve essere. Non basta pensare di essere qualcuno, ma bisogna diventarlo, carne ossa, certificato medico e abbonamento della metropolitana. Gli attori fanno finta, terminata la scena si struccano e tornano a casa. Le spie diventano colui che devono impersonare, non entrano nei suoi panni, ma direttamente nella sua pelle. Devono essere così credibili da ingannare il narratore in persona.
“OK, allora io vado”, fece Daniel appoggiando le mani sui braccioli per aiutarsi ad alzarsi.
“Come l’avete preso?”, aggiunse John senza pramboli, come se l’altro sapesse di cosa stesse parlando.
“Lo sai come l’abbiamo preso”.
“Allora, se vuoi dirmelo, come l’avete trovato? Come siete arrivati a Buenos Aires, via Garibaldi, l’11 Maggio 1960?”
Daniel esitò quel secondo di troppo che non gli permise di negare o di trovare una scusa generica. Erano decenni che non ne parlava con qualcuno. Il suo fu il silenzio di una memoria caduta nell’oblio.
“Il figlio”, aggiunse infine, “Eichmann junior parlava troppo. Se vuoi un consiglio, stai lontano dalla tua famiglia, non avere contatti con gli amici, cancella il tuo passato”.
John annuì, il vecchio gli tese la mano. Non sapeva quale fosse la ragione che l’avesse spinto a vendersi, ma non era lì per scoprirlo. Quando aveva la mano già sulla maniglia della porta John gli chiese:
“Chi ha scritto il racconto? Quello nel quaderno”.
“La ragazza credo. E’ lei che ha creato l’operazione e vuole sempre decidere su tutto”.
“Mi è piaciuto. Se la vedi dille che il racconto era davvero bello”.
Il vecchio Daniel fece un segno con il capo, uscì lento e richiuse la porta dietro di sé senza fare rumore.




[1] Annusapatte.

L'Orco (racconto)


Sto bene. Un tepore caldo, come un fluido che mi scorre sottopelle, segue le linee ramificate del mio corpo. Sono avvolto in una nuvola di cotone, i piedi, le mani, le spalle, la testa. Il bianco mi abbraccia e mi dondola. E’ la mamma che mi osserva dall’alto, che fa dondolare la culla con gesti leggeri. Mi sta sussurrando parole dolci nell’orecchio. Mi sta accarezzando dolcemente la testa pelata. Mi solletica i piedi. Non c’è rumore qui, tutto tace, il silenzio del benessere assoluto. Solo una luce diffusa, omogenea, che non genera ombra, schermata. Mi giro su un lato. Ho un’intensa voglia di addormentarmi, di entrare con tutto il corpo nel sonno di questo bianco e di questa luce, ritrovare il grembo materno, appallottolarmi in posizione fetale, riattaccare il cordone ombelicale, immergermi nel liquido amniotico, dormire succhiandomi il pollice. Sento qualcosa – forse un leggero rumore che spezza il silenzio – ma non viene da fuori, è il rumore della mia mente che vuole dirmi qualcosa. Ma cosa? Non voglio rumori. Voglio silenzio e pace, una mente che non parla, la cessazione di tutto. Forse è una voce, ma non riesco a distinguere le parole. Non mi importa. Niente mi importa, tranne il caldo abbraccio in cui mi trovo in questo momento. Non ascolto la voce, la confino nel bagnomaria del mio inconscio, a sciogliersi lentamente nel tepore che mi avvolge. Chiudo gli occhi, ma la luce rimane. Li riapro e la luce è sempre lì. Aperti o chiusi, gli occhi non mi servono più. Le palpebre sono gli unici muscoli che funzionano ancora, ma potrebbero anche cessare di farlo. Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me.

Quando gli aveva detto che voleva scalare la parete nord dell’Eiger in solitaria, il Gepi aveva emesso un rantolo sordo, come se il vecchio cirrotico volesse raschiare tutto il catarro dal fondo dei suoi bronchi e poi sputarlo a terra, più denso del catrame. Ma non sputò come il suo solito, né gli uscì un filo di bava a sporcargli il maglione marrone. Si limitò a piantargli lo sguardo vacuo a metà tra il naso e lo sterno e a sibilare: Tu vuoi morire. Poi riappoggiò la testa alla spalliera della sedia a rotelle con il gesto di una tartaruga esausta. Per quanto ormai ridotto ad un rudere umano, incapace di camminare e mezzo cieco, che carburava a Prosecco fin dalle otto di mattina, il Gepi rimaneva un’istituzione per gli alpinisti della zona, una specie di oracolo di Delfi a cui rivolgersi prima di un’impresa. Ormai da tempo aveva smesso di dare consigli veramente utili, un po’ perché il cervello era in costante salamoia alcolica, un po’ perché la tecnica e il materiale erano cambiati così tanto che la montagna non era più la stessa. Quando il Gepi parlava di un sesto grado come se fosse la bocca di Polifemo, i più giovani si sganasciavano dalle risate. Erano quelli nati con i calli sulle mani, cresciuti a micro, meso e macro-cicli, tecnicamente superdotati, fisicamente imbattibili, che il sesto grado lo facevano con una mano sola, in totale sicurezza, con scarpette superaderendi da ballerina verticale; non certo con gli scarponi di pelle, i chiodi piantati a mano e le corde di canapa. Cagasotto li chiamava il Gepi nei momenti di lucidità, sempre più rari e sempre più corti.
Lui non era un cagasotto. Lui era un alpinista come ce n’erano una volta: solido, ostinato, taciturno. Non faceva diete speciali, non si allenava in palestra, non faceva bouldering, non usava finger boards. A dire la verità lui non era neanche un vero alpinista. Lui era semplicemente un montanaro, nato in montagna, cresciuto in montagna. Uno che in valle iniziava a tossire, che in pianura soffocava. Dal Gepi c’era andato per tradizione, come si compra il panettone a Natale, senza pensarci su. Normalmente il vecchio alzava le spalle senza capire, oppure borbottava una frase qualsiasi  del tipo atento ai sarachi,  oppure fa un fredo del’ostrega, coprete bén. Quel Tu vuoi morire l’aveva un po’ stupito. Non rientrava nello stile del Gepi fare premonizioni drammatiche. Probabilmente l’aveva confuso con uno dei cagasotto o si era dimenticato che aveva già scalato la nord delle Grandes Jorasses e del Cervino, d’inverno e in solitaria. All’epoca ne aveva parlato anche un giornale locale con un articolo enfatico e sgrammaticato, incastonato tra l’annuncio della sagra della lepre e un articolo sull’innaugurazione della nuova circonvallazione. Ma il Gepi non leggeva giornali, il Gepi probabilmente non sapeva neanche leggere.
Insomma, non ci fece caso e non ne parlò con nessuno. Il vantaggio della scalata in solitaria è che devi comunicare solo con te stesso, non hai la responsabilità di nessuno all’altro capo della corda; anzi la corda proprio non ce l’hai, se non arrotolata nel fondo dello zaino. La preparazione era stata rapida: poco peso vuol dire poco materiale, praticamente niente cibo, una borraccia d’acqua. In tutto si era portato dietro un chiodo da ghiaccio, quattro moschettoni e un rinvio. Il piano era di scalare la nord in giornata, non c’era bisogno di altro. Comprò il biglietto per Interlaken e dovette ripetere il nome tre volte al ferroviere attraverso il piccolo pertugio del vetro blindato dietro cui si proteggeva da chissà quali pericoli. Abbandonò il porto sicuro delle montagne per affrontare il mare aperto della pianura, passando per la tempesta immobile della città mostruosa, quella Milano da bere che puzzava di carogna ancora prima di morire. Se la lasciò alle spalle con un brivido, aspettando che passasse il lago alla sua destra, Como e Chiasso, il puttaniere a cielo aperto di Lugano, poi di nuovo a casa, di nuovo montagne. Ad Interlaken comprò il biglietto per Kleine Scheidegg. Non dovette ripetere il nome questa volta. Il ferroviere non lo guardò neanche in faccia. Osservava il suo zaino, i suoi vestiti, gli scarponi rigidi di chi usa i ramponi da ghiaccio. Kleine Schhadegg non poteva che essere l’unica destinazione per un signor nessuno in cerca dell’orco[1].

Ti svegli all’alba, il cielo è viola di sonno, solo qualche stella sopravvive all’incedere del sole. Tra poco la lampada frontale non ti servirà più. Te la potrai togliere assieme al berretto di lana e alla giacca. Tu hai sempre freddo la mattina. Sai che ti scalderai in pochi minuti, ma preferisci coprirti, iniziare a sudare, sentire il calore della pelle sulla pelle. Bella giornata pensi. Non c’è una nuvola in cielo. Le previsioni sono ottime, non ci sono rompicoglioni in giro. C’è sempre qualche cordata rumorosa a rompere l’incanto della montagna. Gente che urla sosta!, corda!, blocca! oppure Stand!, Seil!, zu!. Oggi nessuno, sono tutti rimasti in valle a mangiare fondue e a bere il vino troppo bianco, troppo acido e troppo caro del Vallese. Siamo rimasti in due: tu ed io. Ti rimetti in moto. Da giù qualcuno ti starà guardando con un binocolo, sperando in un passo falso, di vederti cadere in diretta per la parete quasi verticale di roccia e ghiaccio. Non ci fai caso ai topi di valle, sono un’altra specie, quasi peggio dei topi di città. Continui a salire. Non fai fatica. Segui la tua respirazione regolare con movimenti gravi di metronomo. Guardi dove vuoi mettere le mani, sposti i piedi, inizi il movimento con le gambe, afferri la presa con la mano, poi trovi subito l’equilibrio. Standardbewegung si chiama in tedesco. Per te non è una tecnica di arrampicata, ma il modo in cui hai sempre vissuto. In questo momento c’è un sottile strato d’aria tra te e la roccia, ma tu ti senti di roccia, non percepisci la distinzione fisica e biologica tra il tuo corpo e la parete. Siete due entità fatte della stessa materia, di cui una si muove sopra all’altra.
Non sai quanto hai arrampicato perché non hai l’altimetro. Sai solo che sei partito a poco più di 2000 metri e che la cima è a 3970. Ma per te i numeri non sono niente, non servono a descrivere una parete, una montagna o una vita. Neanche le parole servono a molto; quelle giuste non sono ancora state inventate, le altre vengono usate a sproposito. Solo i cognomi ti dicono qualcosa. Hinterstoisser ti sta parlando in questo momento. E’ morto da quasi ottant’anni, ma lo ritrovi lì di fronte a te, nella stessa posizione in cui ti trovi adesso. E’ stato il primo ad attaccare la traversa che porta il suo nome e la traversa è ancora lì, ti sta aspettando. Tu adesso sei Hinterstoisser. I tuoi piedi sono i suoi piedi, le tue mani sono le sue mani. In cento anni non è cambiato il modo di affrontare una traversa: mano, piede, mano, piede, senza perdere l’equilibrio, senza cadere nel vuoto, senza paura e senza pensare. Soprattutto senza pensare. Guardi il cielo, si è imbiancato di strisce di aerei, c’è umidità, ma il sole si vede ancora, il tempo tiene. Saluti Hinterstoisser e continui a salire. L’Eiger ha una sola direzione, non si torna indietro.
Perché hai freddo d’improvviso? Ti sei arrampicato con regolarità, non hai strafatto, sei in forma. Eppure hai freddo, un lungo brivido umido ti scorre longitudinalmente ai due lati della spina dorsale. Vento. Viene da nord. La parete è esposta a nord. Ti rimetti la giacca. Continui a salire. Ti chiedi se i topi lì in basso ti stiano ancora guardando con il cannocchiale o se abbiano iniziato a fare colazione con formaggio e Birchermuesli, bevendo caffé fumante, magari giocando a Jass. Tu non hai fame, non hai sete, hai solo un po’ di freddo.
Non si vede più il sole. Una nuvola grigia l’ha coperto. Il vento ora soffia con forza. A volte stenti a trovare l’equilibrio, l’aria ti risucchia verso il vuoto, le mani si stringono troppo forte su una roccia troppo fredda. Sai che non bisogna stringere le prese. Chi stringe troppo perde energia, chi perde energia si stanca, chi si stanca non va più avanti. Vorresti rilasciare la presa, ma le tue dita sono intorpidite dal freddo e l’insensibilità ti impedisce di sapere quando la presa è troppo stretta o troppo molla. Troppo molla vuol dire precipizio. Il tuo respiro si fa affannoso, perdi regolarità. Sei costretto a fermarti e riprendere fiato. Ma il problema non è il freddo, né l’affanno. Il problema è che hai iniziato a pensare. Non sono pensieri compiuti, logici, lineari. Pensi a parole sconclusionate a frasi storte: torta di mele, meglio soli che al mare, non tirare la corda che costa cara, freddo cane, vorrei un cane. Pensi soprattutto al vecio e al suo Tu vuoi morire, così stonato, così brutale. La tua mente ripete Tu vuoi morire dieci, venti, trenta volte. Non puoi fermarla, o forse non vuoi. La lasci correre e ad ogni passo lei ti ripete lo stesso mantra: Tu vuoi morire, tu vuoi morire, tu vuoi morire. Vorresti mettere della cera nelle orecchie, per non sentire più, ma la voce – lo sai bene – non viene da fuori. Le sirene ti parlano da dentro la tua pelle, da dentro la tua carne. Sei tu stesso la sirena che ti vuole morto.
Fa ancora più freddo. Il vento spazza la montagna con la furia di una scopa di saggina e tu in lì in mezzo non sei altro che un granello di sabbia umana aggrappato alla roccia. Tremolii. Prima i polpacci, poi le cosce, ora anche le braccia e le mani. Il freddo ti scuote dal di dentro, ti oscura la vista più che le nuvole portate dal vento. Ora sei più cieco di Polifemo, più solo di Ulisse. Non riesci a vedere veramente più nulla, tranne un mare bianco senza onde. Sai solo che devi andare in su, ma non sai più dove sei. Non avrai preso la crepa sbagliata, quella che finisce in un pezzo di granito strapiombante che non riuscirai ad affrontare da solo? Non lo sai. Avere dei dubbi è peggio che pensare, è peggio che avere paura. Fai l’unica cosa che puoi fare: andare avanti.
Inizia a nevicare. Prima dei piccoli fiocchi timidi che il vento ti sputa in faccia quasi per dispetto, poi dei grossi fiocchi che si attaccano alla giacca, ai pantaloni, ai capelli e ti coprono come una seconda pelle gelata e ostile. In breve sei bianco come Babbo Natale, ma senza le renne e senza regali. Adesso non hai altra scelta. Non puoi fare altro che fermarti. Trovi un piccolo spiazzo in cui accucciarti. E’ sufficientemente comodo per starci in due: tu e te stesso. Sai anche come si chiama quello spiazzo. Ci sono arrivati Karl Mehringer and Max Sedlmeye nel 1935 e non sono più ripartiti. Ti sei rifugiato nel bivacco della morte sperando di sopravvivere. Sai che la tua vita dipende da uno di quei topi di valle, dal loro cellulare e da un pilota coraggioso che accetti di avvicinare il suo elicottero alla parete nel mezzo della bufera. Oppure un miracolo che spazzi via le nuvole e riporti il sereno. Miracolo appunto. Fai l’unica cosa che puoi fare: rabbrividisci di un freddo bastardo che non ti dà tregua ed ogni tremito è più forte di quello precedente, ogni minuto che passa più gelido di quello precedente. Inizi a pensare seriamente che è finita e forse – questa volta – hai anche ragione.

Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me. Sto bene, fa caldo adesso. E’ tutto bianco. Questo bianco è la felicità. Il rumore è sempre lì. E’ la voce della mia coscienza? Oppure sono le pale di un elicottero che taglia l’aria con ferocia per venire a salvarmi? Apro gli occhi. Li richiudo. E’ tutto bianco. Forse stanno venendo a prendermi. Forse rimarrò su questo spuntone di roccia per sempre. Comunque vada, va tutto bene.






[1] Eiger vuol dire orco in Tedesco.