sabato 8 novembre 2014

Doppiogioco (racconto)

“Il cane mi ha riconosciuto”, pensò John. Ne era certo. Quella grossa salsiccia con le zampe troppo corte e gli occhi dissociati sapeva chi era. Un bulldog francese, con l’andatura sbilenca da pachiderma, l’aveva scoperto. Prese il quaderno, girò la pagina, scrisse la data e annotò: “George, il cane, sa”. Poi con la penna rossa “problema potenziale”. Richiuse il quaderno, girò i tacchi. Per oggi aveva finito. Quel suo lavoro da crotch sniffer[1], gli sarebbe forse mancato, uno dei pochi.
Da quando il Big Boss aveva fatto partire il cronometro della sua vita – circa cinquantanni prima – aveva sempre adorato le porte girevoli, assieme alle scale mobili e agli ascensori, ma soprattutto le porte girevoli. Forse quella era l’unica cosa decente dell’Hotel Continental, per il resto un condensato di tristezza e di decadenza senza pari, quasi una versione architettonica di se stesso. Il vento riuscì a dargli un’ultima sferzata, coprendolo di grosse gocce sporche, prima che il vetro rotondo lo accogliesse all’interno. Nell’altra metà della porta, quella che risputava i clienti sul marciapiede, incrociò lo sguardo di Daniel e della piccola Rachel, che continuò a spingere la porta fino a tornare dentro, mentre il nonno Daniel la stava a guardare da fuori, sotto la pioggia, con l’aria stupita e paziente di un pesce in un acquario. Rachel avrebbe continuato a girare all’infinito dentro la porta girevole, se la mano del nonno – piuttosto artritica ma all’occorrenza ancora capace di grandi prese al volo  – non l’avesse estratta con gesto di antica sapienza. Il vecchio Daniel fece un cenno del capo che lui ricambiò, mentre Rachel aveva già girato lo sguardo verso un tombino troppo pieno, attorno a cui si era formata una pozzanghera su cui galleggiavano vari tesori il cui vero valore solo lei riusciva ad apprezzare.
John si tolse l’impermeabile grigio d’ordinanza. Indossava anche un cappello a falde larghe che lo faceva assomigliare ad un fungo, sbiadito e spampanato come un gallinaccio secco.
“Buongiorno”, gli disse l’uomo della reception.
“Buongiorno” rispose, non sapendo se si trattasse di un’affermazione o di una domanda. “117” – aggiunse in fretta – anche se l’uomo sapeva perfettamente in quale room angusta e squallida stava passando le sue notti, sempre da solo, senza neanche chiedere il servizio occasionale di Greta, la prostituta istituzionale dell’Hotel Continental: anni quarantacinque, capelli alternanti tra il rosso e il nero (rispettivamente fuoco e corvino), all’anagrafe Marianne Polanski, divorziata, madre di Rachel Polanski di anni sei e figlia di Daniel Polanski, nato a Cracovia nel 5691 del calendario ebraico, approdato a New York nel 1946 di quello gregoriano, dopo un soggiorno di piacere a Treblinka, prodigio del violino a sette anni, oggi conosciuto nel quartiere come il guardiano del parcheggio.
John prese la chiave e non rispose all’invito per una conversazione casuale – neanche troppo velato a dire il vero – da parte dell’uomo della reception. Non gli piaceva quell’uomo basso e pelato, costantemente sudato, dal naso a patata e dai modi troppo affabili per essere genuini. Regola numero uno: mai fidarsi degli sconosciuti, in particolare i receptionists e i tassisti, soprattutto se sembra che siano stati disegnati da un fumettista con poca fantasia come il prototipo dell’informatore infido.
Indeciso tra l’ascensore e un craving ricorrente, optò per il secondo. Si sedette, anzi si abbandonò sulla panca che costeggiava il muro formando un angolo a novanta gradi. Regola numero due: sempre sedersi con le spalle alla parete, meglio se in un angolo: i proiettili difficilmente trapassano i muri e da quella posizione si vede everything. Appoggiò il quaderno sul tavolo, si slacciò la cintura dei pantaloni lasciando le trippe in momentanea libera uscita, protette dalla copertura psichedelica della tovaglia a fiori viola su sfondo giallo.
“Un caffé lungo, senza zucchero, con latte freddo a parte, e magari uno di quei biscotti all’amarena che avete sempre”, anticipò la ragazza, segno che aveva una buona memoria o che lui era piuttosto prevedibile.
Alzò lo sguardo su Michelle, o almeno parte di lei. Le sue pupille si appoggiarono per un tempo un po’ troppo evidente sui seni di lei, prima di raggiungere gli occhi color nocciola. Deformazione professionale quella di osservare. Delle tette così avrebbero meritato uno studio più accurato, scientifico, ma le regole della buona creanza gli imponevano una certa discrezione, anche in quel contesto.
“Esatto” rispose, ed esitò tra farle dei complimenti generici e un po’ galanti da vecchio bavoso o a dirle qualcosa di divertente e frizzante, inaspettato, che facesse trapelare il fascino incantatore di cui non disponeva. Finì per ripetere “esatto, esatto”, passandosi le dita tra collo e camicia, più pappagallo che aquila reale.
Michelle tornò dopo poco con il caffé, il milk e i biscotti. Invece di scomparire dietro al bancone come al suo solito, gli si parò davanti guardandolo e sorridendo. Quello sguardo così diretto, inaspettatto (e più che altro non sperato), ebbe il potere di bloccarlo in una postura innaturale: a metà tra il colpo della strega e una posizione di yoga venuta male. Fu Michelle a far ripartire il tempo. Tirò indietro la sedia e si accomdò di fronte a lui, con un gesto di una naturalezza devastante.
“Non le dispiace se mi siedo un attimo? Sono a fine turno”. Ma la sua non era stata una vera domanda. Si era seduta e basta. Si era anche messa in bocca uno dei suoi biscottini all’amarena e lo masticava senza sensi di colpa apparenti.
“Nessun disturbo”, rispose nascondendo a stendo il turbamento che gli causava quella brusca rivoluzione nelle sue abitudini collaudate. Erano due mesi che stava al Continetal Hotel e da due mesi prendeva la cena alle otto e ogni tanto un caffé, senza parlare con nessuno. Regola numero tre: mai mischiare lavoro e piacere, soprattutto se ci sono di mezzo due tette perfette.
“Vorrei chiederle un piacere se mi permette” continuò Michelle arrotoloandosi i capelli neri e ricci in uno chignon improvvisato e chiuso con una matita, “anche se non ci conosciamo bene, il mio sesto senso mi dice che mi posso fidare di lei”.
Regola numero quattro: quando una donna troppo bella ti fa dei complimenti, non esitare: scappa immediatamente e non guardare indietro.
“Se posso...” – rispose John inspirando aria come un uomo appena uscito da un’immersione e inarcando le spalle involontariamente quasi a voler generare un abbraccio virtuale.
“Vede, io scrivo” continuò Michelle accavallando le gambe e accennando il gesto represso di chi vorrebbe accendersi una sigaretta ma non può. “Sto facendo un corso di scrittura all’università ed ecco...” e fece una pausa. Di solito così decisa e articulated, gli parve che Michelle avesse un attimo di esitazione.
“Ed ecco?” – pensò lui, in sospeso come un pupo siciliano.
“...ed ecco, ho iniziato a scrivere un racconto. Il professore ci ha detto che dobbiamo ispirarci allo stile di un romanzo celebre e io ho scelto A portrait of the artist as a young man. Mi piacerebbe che lei lo leggesse, vorrei la sua opinione”.
E senza aspettare la sua risposta, con la stessa naturalezza con cui si era seduta poco prima, estrasse dalla borsetta di tela multicolore un quaderno identico al suo: copertina di pelle nera, con una sottile linea dorata, fina, quasi invisibile, a seguire i contorni degli angoli smussati.


La mamma della Giovanna si era arrabbiata. Aveva urlato dalla finestra e l’urlo era cattivo. La cena era già in tavola e la Giovanna doveva partire subito. Allora le ho detto OK, che andava bene, che facevamo come diceva lei. Lei mi ha sorriso, poi mi dato un pugno sul braccio, uno di quei pugni terribili che mi lasciano il segno per dei giorni, ma questa volta non mi ha fatto troppo male. Poi è partita per le scale senza salutare. Non saluta mai la Giovanna e non dice mai grazie. Ma io so che lei sta bene con me. Sennò perché verrebbe a giocare tutti i giorni a casa mia? Era ora di cena anche per me. Allora ho messo via tutti i giochi, ho smontato le rotaie e rimesso la motrice nel nylon e poi nella scatola. E’ importante mettere la motrice nel nylon, sennò prende l’umidità e poi non va più. Questo me l’ha detto il Giorgio che sa tutto sui trenini perché li vende. Il trenino me lo ha portato Babbo Natale, ma è uguale a quello che ha il Giorgio in vetrina, per cui io gli credo.
Io volevo fare una storia come nel film che ho visto la settimana scorsa, dove c’era un attore con gli occhi blu che ha un cavallo e una pistola e che uccide i nemici, anche se non si sa se lui è buono o cattivo, perché a me mi sembrava buono ma gli danno tutti la caccia come ai cattivi e poi ruba e quindi è un ladro e forse quindi è cattivo.
Ma la Giovanna, che ha due anni più di me, mi ha detto che no, quella era roba vecchia. I cowboy sono roba da bambini mi ha detto. Io le ho risposto che io ero un bambino, ma lei non mi ha ascoltato. Il trenino con gli indiani e i bisonti e i cowboy è una roba da stupidi diceva. Qui bisogna fare un’altra storia. Dobbiamo fare una storia su New York e sulle spie internazionali. Se vuoi tu puoi fare il protagonista e io la donna irresistibile
A me piacciono le storie di spie e anche fare il protagonista, anche se la Giovanna non me lo fa quasi mai fare. Allora io le ho detto che forse lei aveva ragione, ma che non avevamo niente per costruire una città e che il trenino era un trenino del Far West, tra l’altro con la motrice a vapore anche se sappiamo che in realtà va a elettricità. Avevamo anche la diligenza e un paio di indiani che mi ha regalato mio fratello, insomma quasi tutto quello che ci serviva, tranne le tende che le ho rotte l’anno scorso e la mamma le ha buttate.
Insomma ho accettato di fare come voleva lei, anche perché non c’era tempo per discutere ancora, sua mamma non scherza, veramente. E poi alla fin fine la Giovanna ha sempre ragione, ma ogni tanto voglio avere ragione anch’io. Comunque l’idea è bella. So già dove trovare uno scatolone grande ma non troppo profondo. Lo giriamo e lo mettiamo sopra al trenino. Poi basta fare dei buchi sul piano per le fermate e abbiamo già la metropolitana. Per i grattacieli, perché New York è piena di grattacieli, non ci ho ancora ben pensato, ma forse li possiamo costruire usando le scatole delle scarpe, oppure con i Lego, anche se la Giovanna odia i Lego, non ho ancora capito perché. L’albergo ce l’ho già. Prima di andare a letto ritaglio la scritta Hotel Continental dalla scatola della cuffia per la doccia che usa la mamma e poi la incollo su uno di quelle borracce di plastica che usava mio fratello quando giocava a calcio. Poi taglio un bicchiere di plastica in verticale per fare una porta girevole. Gli alberghi mi sembra che hanno tutti o le porte girevoli o le porte automatiche.
Per la storia non so bene, ma pensavo che uno dei personaggi poteva essere la mia compagna Rachele, quella che non può mangiare i toast al prosciutto e formaggio, anche se non è allergica, perché sennò suo papà si arrabbia. E poi magari il bidello Daniele, che mi sta molto simpatico perché mi fa gli scherzi, ma non sono cattivi, sono scherzi buoni che mi fanno ridere, anche se ha l’aria sempre un po’ seria. E poi magari la Greta, quella del negozio degli alimentari, tutta rotonda come un bigné, che mi regala le caramelle di nascosto, anche se la mamma poi me le prende e non me le ridà perché dice che fanno male.  Pensavo anche allo zio Mario, che però non mi sta molto simpatico perché mi chiede sempre se ho la fidanzata e mi fa pochi regali.
Comunque devo aspettare la Giovanna. Tanto ogni volta che ho un’idea dice di no, anche se a volte prima dice di no e poi alla sua idea aggiunge la mia, o almeno una parte, ma lei non vuole ammetterlo e io smetto di dirglielo, perché tanto so che è vero, e forse anche lei, ma non serve a niente arrabbiarsi se abbiamo tutti e due ragione. E poi le storie che fa la Giovanna sono veramente belle, c’è sempre qualcosa di strano, ma anche bello e non si sa mai come vanno a finire.


John era seduto sul letto disfatto, lo sguardo fisso sul termosifone spento, stava aspettando una fine che stranamente tardava a venire. Vent’anni prima non ci sarebbe stata attesa, evidente segno che l’Agenzia stava diventando un labirinto di burocrazia. Ormai bisognava chiedere il permesso anche per andare al cesso. Infine, quasi rispondendo alle sue suppliche, suonò il telefono. John non rispose, lo lasciò intonare l’inno nazionale cinque volte prima che abdicasse. Ma poi riprese immediatamente. Altri cinque inni e poi altri cinque ed altri cinque, un vero hangover di nazionalismo. Dall’Agenzia non demordevano. Si decise a rispondere.
“Ma che cazzo combini? E perché non rispondi al telefono?”
“Ero al cesso”, mentì John.
“E a me checcazzo me ne frega. Se devi cagare portati dietro il cellulare”.
“OK Capo, prendo nota”.
“E smettila di prendere per il culo testa di cazzo! Ma ti rendi conto di cos’hai combinato?
Le domande retoriche erano la grande specialità del Capo, alias Joseph K. Conrad, esperto di esoterismo e di controllo delle anime, grande cavalcatore del lato oscuro della forza, modesto giocatore di golf e pessimo giocatore di poker, oltre che vice-direttore dell’Agenzia. Da quando John aveva memoria, era sempre rimasto allo stesso posto, con ogni cambio di stagione, con il bello e il cattivo tempo, come il nero che sta bene con tutto. Eppure era sempre rimasto vice di qualcuno, necessario ma non sufficiente.
“Riassumiamo”.
E i riassunti erano la sua passione personale, a cui associava una memoria di ferro, dettagliatissima, proverbiale e inversamente proporzionale alla sua intelligenza.
“Ti dò l’incarico che potrebbe ricoprire un qualsiasi poliziotto di quartiere, praticamente anche un cretino pescato a caso nell’oceano atlantico dei cretini”.
“Sì”, John non trovò altro da dire, si trattava di un’evidenza.
“Insomma ti mandiamo ad annusare la passera della moglie del più grande oligarca dello Strombokistan, per ricattarla e costringerla a lavorare come informatrice per noi. La cosa non è difficile perché quella scopa più di una donna delle pulizie”.
Amante delle barzellette, meglio se sporche o razziste, sfortunatamente per lui il suo originale senso dell’umorismo non era giustamente apprezzato nell’ambiente, tranne che dai suoi fedelissimi yesmen.
“E tu ti nascondi per bene, la segui dappertutto, prendi nota, ti preoccupi pure che quel cane del cazzo che sembra una salsiccia ti abbia scoperto. E cosa fai?”
Cosa faccio? – pensò John quasi distrattamente. Aveva la riposta a quella domanda. Guardò la stanza squallida di quell’albergo di terza categoria. Chi l’avesse visto lo avrebbe trovato un bruco insignificante nel cuore della Grande Mela Marcia.
“Tu ti fai scambiare l’agenda con tutta l’informazione da un’agente sotto copertura, probabilmente russa, che la starà già utilizzando. Una cosa da B-movie degli anni settanta, cazzo! Ma non è tutto”.
Effettivamente non era tutto. Mancava la ciliegina sulla torta.
“Visto che sei nato nella preistoria, hai fatto la scuola con i dinosauri e hai visto il primo computer che eri già sposato e divorziato, continui a utilizzare gli appunti di carta e per di più sempre sull’agenda delle tre missioni precedenti. Il che include, se non mi sbaglio...”.
John escluse che potesse sbagliarsi. Il Capo non ometteva il minimo dettaglio quando era ora di cazziare.
“...se non sbaglio ripeto, tutti gli elementi chiave dell’operazione Pokemon, l’identità degli informatori Pantera Rosa e Paperino, oltre a tutti i codici criptati dell’operazione Lady Oscar, ovvero quanto ci sia di più sensibile per il nostro governo allo stato attuale. Ho dimenticato qualcosa?”
Non aveva dimenticato niente. E per una volta aveva anche ragione quello stronzo presuntuoso e volgare. La propria posizione era indifendibile, un condannato a morte attaccato al lettino dell’iniziezione letale, dopo che l’ultimo appello è stato respinto dalla Corte Suprema.
“Però il racconto che mi ha lasciato è proprio bello”, aggiunse John.
“Che racconto, di cosa stai parlando?”
“Nell’agenda che ha scambiato con la mia, quella uguale alla mia, c’era effettivamente un racconto. L’ho letto, a me piace, è ispirato ad un romanzo di James Joyce. E’ forse anche un po’ autobiografico, mi ricorda un po’ la mia infanzia. Mi chiedo se l’abbia scritto veramente lei oppure abbiano reclutato un writer. Anch’io giocavo con i trenini e avevo un’amica del cuore”.
“Sei licenziato”.
“Lo so”.
Il Capo riattaccò, John si distese sul letto, osservando l’immobilità assoluta del ventilatore che pendeva arrugginito dal soffitto. Un ventilatore che avrebbe potuto attivare con un semplice gesto della mano. L’interruttore era posizionato a fianco al comodino, facilmente raggiungibile. Spesso la differenza tra vivere o morire, vincere o perdere, sta in un gesto semplice, quotidiano. E prima ancora che nel gesto, sta nella decisione di fare quel gesto. Ma rompere l’immobilità è quanto di più rivoluzionario ci sia per un soggetto della specie homo sapiens sapiens.
Bussarono alla porta. John la aprì senza guardare chi fosse. Entrò il vecchio Daniel che prese la poltrona e si sedette di fronte al letto appoggiandosi con lentezza allo schienale.
“Allora?”, chiese Daniel.
“Tutto bene”, sispose John.
“Sei sicuro?”
Positive. Pensa che io sia un rincoglionito che ha fatto la cazzata al bordo della pensione. Sono mesi che gli ho instillato questo dubbio”.
“Veramente sicuro?”
John si limitò a osservarsi scrupolosamente le unghie curatissime e non aggiunse altro.
“Se lo dici tu ci credo”, aggiunse il vecchio quasi per scusarsi, poi continuò con tono professionale, “I soldi sono sul conto, i codici d’accesso li hai già, cambiali nelle prossime 72 ore.
“Già fatto”.
“Perfetto”, il vecchio fece una piccola pausa quasi a controllare la check-list che aveva memorizzato, poi aprì la cartella di pelle che aveva con sé. “Ecco il biglietto con partenza da Mexico City, queste sono le chiavi della macchina, il serbatoio è pieno. Qui ci sono un paio di passaporti se ne dovessi avere bisogno, un bonus in caso ti vengano a cercare, decisione della ragazza, l’ho già ringraziata da parte tua”.
John prese i passaporti, li osservò controluce, passò le dita sulle pagine vuote e su quelle con alcuni timbri. Era un lavoro ben fatto, perfettamente identici agli originali, molto credibili.
“Quasi dimenticavo”, aggiunse il vecchio quasi imbarazzato, “la ragazza ti fa i complimenti. Dice che non ha mai visto qualcosa del genere, un attore geniale ha detto, really”.
John non accennò una risposta, non fece un gesto. Per essere naturali è necessario credere quello si deve essere. Non basta pensare di essere qualcuno, ma bisogna diventarlo, carne ossa, certificato medico e abbonamento della metropolitana. Gli attori fanno finta, terminata la scena si struccano e tornano a casa. Le spie diventano colui che devono impersonare, non entrano nei suoi panni, ma direttamente nella sua pelle. Devono essere così credibili da ingannare il narratore in persona.
“OK, allora io vado”, fece Daniel appoggiando le mani sui braccioli per aiutarsi ad alzarsi.
“Come l’avete preso?”, aggiunse John senza pramboli, come se l’altro sapesse di cosa stesse parlando.
“Lo sai come l’abbiamo preso”.
“Allora, se vuoi dirmelo, come l’avete trovato? Come siete arrivati a Buenos Aires, via Garibaldi, l’11 Maggio 1960?”
Daniel esitò quel secondo di troppo che non gli permise di negare o di trovare una scusa generica. Erano decenni che non ne parlava con qualcuno. Il suo fu il silenzio di una memoria caduta nell’oblio.
“Il figlio”, aggiunse infine, “Eichmann junior parlava troppo. Se vuoi un consiglio, stai lontano dalla tua famiglia, non avere contatti con gli amici, cancella il tuo passato”.
John annuì, il vecchio gli tese la mano. Non sapeva quale fosse la ragione che l’avesse spinto a vendersi, ma non era lì per scoprirlo. Quando aveva la mano già sulla maniglia della porta John gli chiese:
“Chi ha scritto il racconto? Quello nel quaderno”.
“La ragazza credo. E’ lei che ha creato l’operazione e vuole sempre decidere su tutto”.
“Mi è piaciuto. Se la vedi dille che il racconto era davvero bello”.
Il vecchio Daniel fece un segno con il capo, uscì lento e richiuse la porta dietro di sé senza fare rumore.




[1] Annusapatte.

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