Carolina la giraffa si era innamorata di Leonardo il leone, un problema non
indifferente, soprattutto per lei. Carolina era arrivata da due mesi, assieme alle
sorelle Margherita, Stefania e Monica. Quattro nomi che valevano otto, perché
indicavano sia la giraffa che l’equilibrista con cui faceva il numero. L’omonimia
tra l’animale e la persona aveva generato non poca confusione nel Circo Razzoli,
che già di suo aveva eretto il Caos a principio cardine della gestione. Più di
una volta il direttore, il Signor Razzoli in persona, aveva urlato “portatemi
Monica!”. E invece della brunetta dai capelli a caschetto e gli occhi a
mandorla che era anche la portavoce del quartetto di equilibriste campane,
appariva fuori dalla sua roulotte la giraffa Monica, che lo guardava con occhi
beati, ruminando una manciata di fieno con grande piacere, facendo roteare la
mandibola inferiore con regolarità certosina. Monica la salernitana, invece,
era probabilmente intenta a litigare con le tre sorelle gemelle, una battaglia
che conduceva da una vita, con cadenza quotidiana e grande dedizione personale.
Le ragioni erano così varie da risultare ininfluenti: la lite sembrava il vero
scopo – l’alpha e l’omega – di tutti i loro sforzi. Potevano litigare per delle
ore, anche tutto il giorno, per giorni successivi, insultandosi e ricordandosi
torti reciproci. Nella loro roulotte, che veniva sempre messa ai margini del
campo a causa dei troppi decibel, si mangiava esclusivamente in piatti di
carta, perché quelli di ceramica venivano usato come frisbee.
“Folli, folli, folli”, era il commento del Signor Razzoli, che si faceva
chiamare Dottore benché il suo nome apparisse negli atti scolastici ufficiali solo
fino alla terza media, probabilmente per un banale errore di trascrizione. Il
Dottore, ultimo membro vivente di un’illustre stirpe di domatori di leoni – la
Grande Famiglia Razzoli appunto – aveva ereditato il circo da suo padre, in
seguito alla di lui morte avvenuta in tragiche circostanze due anni prima. Per
tragiche circostanze bisogna fare riferimento allo sbranamento dello stesso a
opera del leone Leonardo, già colpevole della morte di Rizzoli Stefano,
fratello maggiore del Dottore ed erede designato per la continuazione dell’attività
familiare. Nonostante la recidiva, per di più aggravata dall’illustre discendenza
di entrambe le vittime, al leone Leonardo era stata risparmiata la vita. Non
solo, era anche stato decisio di raddoppiarne la razione di carne a scopo
preventivo.
Tanta clemenza aveva sollevato dubbi ed elucubrazioni all’interno del
circo, il cui secondo pilastro gestionale era solidamente costruito sui
pettegolezzi più indiscreti e le teorie complottistiche più fantasiose. Varie ipotesi
furono elaborate per giustificare la permanenza del leone Leonardo tra i vivi.
Una era che la morte del padre e del fratello del Dottore non era stata per
nulla accidentale, anzi faceva parte di una macchinazione volta a eliminare,
prima il concorrente all’eredità, e poi lo scomodo patriarca. A riprova di tale
tesi, veniva portata la manifesta megalomania del Razzoli, associata a
un’ambizione smisurata e a un cinismo leggendario. Un’altra tesi identificava invece
il colpevole nella famiglia Bortolotti, anch’essa specializzata nella domazione
di leoni e proprietaria dell’omonimo circo, principale concorrente della
famiglia Razzoli. A supporto di tale ipotesi vi era la conclamata inimicizia
tra le due famiglie, sfociata in passato in una faida violentissima che aveva
lasciato tracce di sangue sulle piazze di mezza Italia. Tuttavia da oltre un
secolo le due stirpi di domatori si erano limitate all’ingiuria reciproca e a
qualche sporadica provocazione goliardica, come la produzione di poster in cui
si vedeva un membro dell’altra famiglia mentre stava domando una gallina, un
asino o un coniglio.
Ma l’ipotesi più accreditata era che Leonardo il leone in realtà fosse la
reincarnazione felina di Gianbattista Eufebio Razzoli. Quadrisavolo del Dottore
e iniziatore dell’augusta dinastia dei Razzoli, Gianbattista Eufebio Razzoli
lasciò nel 1854 un promettente lavoro di impiegato postale ottenuto grazie a
raccomandazione dell’arcivescovo di Venezia suo parente, per rincorrere la fama
e la gloria onnipotente del domatore di leoni. Il ritratto di Gianbattista
Eufebio veniva collocato all’entrata del circo appena il tendone veniva montato
e molti degli artisti vi attribuivano poteri sovrannaturali. Spesso
depositavano delle offerte, accendevano delle candele e facevano dei tipici
rituali circensi per chiedere la grazia di guarire dal raffreddore o dal mal di
schiena (il potere di Gianbattista Eufebio era conclamato in caso di colpo
della strega). L’ipotesi della reincarnazione era stata formulata dalla decana
del Circo Razzoli, Mariolina Biggetta detta Tutù, nonché fonte primaria di
tutte le teorie complottistiche del circo, passate, presenti e future. Benché
la fondatezza delle tesi di Tutù fosse spesso messa in dubbio – a partire dal
suo stesso marito Antonio Martello – nel caso particolare la teoria aveva
assunto un certo peso specifico, sia in virtù della recente conversione al
buddismo del Razzoli, sia del fatto ormai conclamato che Tutù fosse l’amante
del Razzoli stesso, all’insaputa del marito Martello, e dunque in possesso di
informazioni privilegiate. Mariolina Biggetta aveva da tempo pensato di
confessare al marito la storica relazione con il Dottore, ma si era trattenuta
per paura che l’ira di Antonio Martello – estremamente collerico anche in
condizioni normali – non sfociasse in una carneficina durante l’esibizione
circense, in cui la Tutù svolgeva il ruolo della donna sfiorata – ma per il
momento non ancora trafitta – da lunghi ed affilatissimi coltelli che il
Martello fabbricava personalmente e affilava e con grande cura due volte la
settimana, il martedì e il venerdì.
“Riunione di circo!”, aveva intimato il Dottore, cui piaceva vedersi come
grande manager circense e adottava sistematicamente le tecniche di gestione
apprese dalla lettura ripetuta di Come
farsi sempre ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del
rispetto, libro intenso e profondo, capace di svelare le tecniche
manageriali più efficaci e gelosamente custodite dai leader mondiale, incluso Barak
Obama. Il Dottore era un devoto degli insegnamenti del Libro e non riusciva a
credere che fosse uscito da catalogo, attribuendo il fatto alla cecità umana e
a una politica editoriale riprovevole.
“Qui c’è bisogno di un breistorning”,
aveva aggiunto rigirando con una mano il baffo alla Dalì che si era fatto
crescere con tanta cura e che spalmava regolarmente di pomata per renderlo più
appuntito e splendente. Con l’altra mano aveva indicato la roulotte comune,
luogo deputato ad accogliere le riunioni dei circensi, piuttosto rare prima
dell’avvento del Libro, ma generalmente ad alto contenuto d’intrattenimento.
Aveva ripetuto breistorning tre volte
ed era rimasto con l’indice puntato verso la roulotte, una posa che a lui doveva
ricordare quella di Napoleone durante la battaglia delle piramidi e che invece
al clown Giuseppe richiamava il film Moby Dick: l’immagine di Gregory Peck attaccato
alla schiena della grande balena bianca che agitava ormai incosciente il
braccio chiamando i marinai verso la loro fine.
Il clown Giuseppe – da tutti considerato un intellettuale – era l’unico oltre
al Dottore che fosse mai stato visto in compagnia di un libro, che aveva
addiritura la cura di cambiare una volta finito. Giuseppe era il primo clown nella
storia del Circo Razzoli a non essere in cura da uno psicanalista, a non aver
mai visto uno psicologo, né un cartomante, né un indovino. Non aveva mai
tentato il suicidio, né mangiando quintali di zucchero filato come il suo
predecessore diabetico, né gettandosi sotto le zampe degli elefanti come quello
precedente. Stranamente non affetto da alcun tipo di depressione, il clown
Giuseppe era al contrario un elemento di stabilità emotiva nel Circo Razzoli,
il cui terzo pilastro gestionale si basava su incertezze croniche, dubbi
esistenziali e – occasionalmente – crisi di panico incontrollato. In mancanza
di meglio, il clown Giuseppe era diventato suo malgrado una specie di punto
riferimento dei circensi, che si accomodavano nella sua roulotte dopo lo
spettacolo e si lasciavano andare a divagazioni e aneddoti personali, confessioni e pentimenti, bevendo litri di caffé e
mangiandogli tutti gli m&m’s senza chiedergli il permesso. A differenza
della Tutù, il clown era una tomba e niente di quello che entrava dalle
orecchie usciva dalla sua bocca, con o senza il rossetto. Giuseppe non capiva
perché riuscisse a genere nei suoi colleghi un tale irrefrenabile desiderio di
spalancargli le porte del loro animo. Certo sapeva ascoltare, o meglio si
limitava ad annuire senza interrompere i fiumi di parole che venivano riversati
nelle pause tra un m&m’s e l’altro. Certo anche che si interessava
veramente a quello che gli dicevano, tanto che il problema altrui diventava, in
fondo, anche il suo. Certo infine che il suo ego non creava eccessive barriere:
un clown, in fin dei conti, non fa paura a nessuno, al massimo a se stesso.
Tuttavia egli riteneva che tali ragioni non fossero sufficienti a spiegare il
fenomeno nella sua interezza. Dopo molta riflessione si era convinto che la
vera spiegazione stesse nel cerone. Era quella patina bianca che gli restava
immancabilmente sulla faccia o sul collo, nonostante tutta la cura con cui si
struccava, che scatenava la voglia di confessoine dei circensi. Perché loro non
parlavano a lui come persona, ma al circo stesso come entità atemporale: fonte
e scopo della loro vita.
Il ruolo di confidente privilegiato e il rispetto che vi era associato
aveva messo il clown Giuseppe nel mirino del Dottore, sempre più geloso della
sua considerazione all’interno del gruppo. Secondo una delle confidenze telodicomatunondirloanessuno della Tutù,
Razzoli stava covando un astio profondo e ribollente contro Giuseppe, appena
mascherato dai suoi comportamenti di maniera, che presto sarebbe scoppiato in
tutta la sua violenza. Nonostante Giuseppe non facesse nulla per per avere tale
ruolo – o forse proprio a causa di ciò – il Dottore aveva intrapreso
un’intricata campagna macchiavellica contro di lui, per metterne a nudo la
presunta malvagità, l’incapacità professsionale, la plateale slealtà e l’innata
disonestà. Fino a quel momento la campagna non aveva dato esiti di nota, a
causa del comportamento irreprensibile del clown, che nel suo lavoro era
paradossalmente molto serio.
La troupe si ritrovò fuori dalla roulotte principale e il Razzoli stava già
per iniziare il lungo e pomposo discorso d’apertura, un monologo interminabile generalmente ascoltato
solo dalla Tutù, quando le sorelle siamesi – che in realtà erano cinesi – presero
inaspettatamente la parola, o più precisamente urlarono in perfetta stereofonia
“manca aclobata, manca aclobata”. Ad un’attenta verifica dell’Uomo Cannone –
che a dispetto dell’apparenza da troglodita aveva uno spiccato senso
sell’osservazione e una capacità analitica non indifferente – si certificò l’assenza
ingiustificata di Rodion Romanovič
Raskolnikov, alias Piuma
Volante. Il russo era un acrobata affetto da una rarissima malattia – genetica
per alcuni, psico-somatica per altri – che gli causava forti crisi di vertigini
quanto scendeva dal trapezio. Per ovviare a tale problema aveva deciso – come
in un racconto di Kafka – di vivere perennemente appeso in aria, organizzandosi
in maniera astuta per ricevere rifornimenti di cibo ed espellere i residui
fisiologici. A differenza del racconto di Kafka, veniva tirato giù a forza
quando era ora di smontare il tendone e per ovviare alle crisi di vertigini gli
veniva data una cassa di vodka, a suo dire unico rimedio alla grave malattia da
cui era affetto.
Il Dottore non riuscì a nascondere tutta la sua personale contrarietà per
l’osservazione anticlimatica delle siamesi cinesi, ma si ricordò dei precetti
enunciati nel Libro, con particolare riferimento al capitolo dedicato all’importanza
dell’inclusione dei sottoposti nel processo decisionale caratterizzato da awareness e ownership (entrambi termini sottolineati con la penna rossa) e non
se la sentì di continuare senza Piuma Volante. Ordinò a Giuseppe di andarlo a
chiamare. Quando questi gli fece presente che Piuma si muoveva solo con il suo
trapezio e suggerì di organizzare la riunione direttamente nel tendone, Razzoli
ebbe un moto di stizza che causò un impercettibile movimento dei baffi
artistici, che si raddrizzarono come la coda di un gatto che sta per graffiare.
Pensò che era venuto il momento di accusare il clown pubblicamente di
insubordinazione, ammuntinamento, tradimento e altri gravi delitti di cui si
era ripetutamente macchiato. Ma notando che tutti assentivano, chi con un movimento
della testa, chi a parole e chi – come il nano Brontolo – soffiandosi
rumorosamente il naso, fece di necessità virtù e prese la testa della truppa
marciando con passo deciso verso il tendone.
Il tendone del Circo Razzoli era da tutti considerato qualcosa a metà tra
un vecchio amico e una persona di famiglia. In un ambiente in cui non si facevano
grandi distinzioni, né a livello di genere, né di origine sociale, né
addirittura tra esseri umani e animali, era normale che un tendone potesse
rientrare a pieno titolo tra i membri della famiglia, e così era. Il tendone
aveva un nome (Michelone), delle idiosincrasie (odiava il Veneto orientale e si
afflosciava ogni volta che il circo si fermava a Jesolo), delle gelosie (più di
una corda di sicurezza aveva misteriosamente ceduto quando veniva usata da
uomini che corteggiavano la contorsionista), delle preferenze etniche (vietato
far entrare sudamericani), una passione per i bambini biondi con i ricci (il
poster della Nutella non cadeva mai a differenza di tutti gli altri), un odio
per i pop corn e l’odore di olio bruciato (la macchina dei pop corn aveva più
menomazioni di un mutilato di guerra) e molti aneddoti da raccontare. Privo di
parola, almeno per i neofiti del circo, comunicava attraverso il rosso sbiadito
e il bianco sporco della tela, cui si alternavano rattoppi multicromatici
dovuti all’usura e al ripetersi inteminabile di montaggi e smontaggi.
I circensi passarono per la grande apertura di Michelone sotto la scritta Circo Razzoli e a fianco al ritratto di
Gianbattista Eufebio Razzoli. Entrarono nello
stesso ordine che avevano nella rassegna di fine spettacolo, quando tutti gli
artisti si presentavano di fronte al pubblico, facendo il giro della pista e
poi uscendo tra gli applausi, quando ce n’erano. Dopo il Dottore fu il turno
delle sorelle campane (per una volta senza giraffe e quasi senza litigare),
delle siamesi cinesi, del giocoliere Bartezzaghi che aveva dato fuoco alle sue
clave e le faceva roteare sulla testa del nano Brontolo che non era affatto
contento, della contorsionista thailandese aggrappata con le gambe alle spalle
dell’Uomo Cannone, del corpo di ballo al completo (ovvero quattro pesone), da
Antonio Martello seguito da Tutù e da Inverso, l’uomo che camminava sulle mani.
Chiudevano la processione il clown Giuseppe e Denise l’addestratrice di gatti,
che in molti vedevano come una coppia naturale. Un amore quasi obbligato, che –
secondo fonti non verificate – non era sfociato solo a causa della terribile
allergia al pelo di gatto di Giuseppe, per cui non era stato ancora trovato
rimedio. Piuma Volante li aspettava appollaiato sul suo trespolo, ancora con il
costume di scena cosparso di lunghe piume bianche e grigie che lo faceva
assomigliare a un barbagianni.
Razzoli aspettò che tutti si accomodassero, chi sulle panche degli
spettatori, chi per terra, quest’ultimi facendo particolare attenzione a
scansare le enormi cacche di elefante che erano ancora dissemnate a macchia di
leopardo. Ci volle un po’ di tempo prima che il rumore di passi e le voci di
genti diventasse un normale brusìo di sottofondo, per poi evaporare in un
silenzio sufficientemente formale perché il Dottore si decidesse a parlare. Si
era procurato il microfono delle grandi occasioni, quello a forma di cono di
gelato con le palline colorate e la panna montata finta. Ma appena lo accese
partì la musichetta del circo a tutto volume ta ta ta da da dan da da ta
ta ta da da dan da da e – per un riflesso pavolviano incontrollabile oltre
che incondizionato – tutti si misero in moto
come se fossero le figurine di un
carrillon per bambini, chi sventolando i costumi impumati e chi mettendosi a
girare sulla testa. La confusione era generale, perché ognuno si esibiva senza
badare a quello che facevano gli altri, in una specie di baccanale circense
improvvisato.
Se Razzoli avesse mantenuto una prospettiva d’insieme e avesse osservato
con attenzione e sufficiente distacco la scena, si sarebbe reso conto che quel
movimento spontaneo e incontrollato, vivente e spumeggiante, era probabilmente
lo spettacolo più bello che il Circo Razzoli avesse mai mostrato durante
l’intera sua venerabile esistenza. Ma si dà il caso che il Dottore fosse troppo
indispettito dall’improvvisa anarchia e mancanza di rispetto per la sua leadership instituzionale per apprezzare
il valore artistico della performance involontaria
dei suoi circensi. Vedendolo sull’orlo del baratro isterico, il clown Giuseppe si
tuffò a volo d’angelo sull’altoparlante come faceva nel suo numero acrobatico e
staccò la spina, congelando il movimento dei suoi colleghi. Rimasero immobili, cristallizzati in una
posizione innaturale come nei film in cui, per un attimo, il tempo si blocca.
Assieme all’immobilità giunse il silenzio e Razzoli fu costretto a ringraziare
il clown – suo malgrado e a denti strettissimi.
“Siamo qui riuniti”, iniziò con tono papale, “perché abbiamo un problema”.
La Tutù annuì prontamente. La presenza di un problema la galvanizzava,
ancora di più se in assenza di una
soluzione e possibilmente associato a conseguenze catastrofiche. Non era
sprezzo del pericolo come in molti pensavano, forse facendosi influenzare dal lavoro
di moglie del lanciatore di coltelli.
No, la Tutù era semplicemente attratta, fin dall’infanzia, da tutto ciò che di
più infausto ci potesse essere: disgrazie, malattie terminali, tragedie umane,
cataclismi naturali, morte e distruzione. Doveva ricevere la sua dose
giornaliera di notizie funeste, e non mancava un solo telegiornale. Aveva una
predilezione particolare per gli incidenti aerei e si era abbonata al canale
National Geographic solo per avere accesso a degli splendidi documentari che
illustrano con dovizia di particolari, simulazioni grafiche e interviste ai
sopravvissuti, tutte le possibili cause che possano contribuire ad abbattere un
aereo in volo, possibilmente sopra un’area densamente popolata, causando
disastri a catena. Quando le disgrazie non avvenivano, oppure si verificavano
in luoghi troppo lontani per poterne sentire l’effetto, si sentiva obbligata a
compensare con il suo personale intervento. Dove non c’era un problema, si
poteva sempre crearlo.
“E il problema è...”
Il Dottore si fermò a riflettere. Nella concitazione generale aveva
improvvisamente dimenticato la ragione per cui aveva organizzato il breistorning. E più si sforzava di
ricordare, più la sua memoria retrocedeva.
“Il problema è...”, ripeté per guadagnare un po’ di tempo. Ma non a
sufficienza, perché la memoria rimase bianca, candida come un nevaio d’alta
montagna. Non riuscì a continuare. In molti pensarono che stesse applicando una
nuova tecnica di management tratta da
Come farsi ubbidire dagli altri: la forza
dell’autorità, il segreto del rispetto e abbozzarono uno sguardo d’intesa,
oppure annuivano pensierosi. Solo la Tutù si era resa conto che Razzoli si era letteralmente
imbambolato, quasi fosse caduto vittima di una seduta di autoipnosi: rigido e
immobile come un’asse da stiro. Avrebbe potuto aiutarlo, fargli un cenno,
oppure ricordargli a voce la ragione per cui la riunione era stata organizzata,
ma non lo fece. Vederlo in piedi, con la giacca rossa e i bottoni d’orati, il
trucco attorno agli occhi, il cappellone nero che nascondeva la calvizia
incipiente, gli anelli d’oro alle dita, i pantaloni troppo stretti e i baffi
che avevano perso la consueta baldanza, le dava un piacere intenso, il piacere
del ridicolo altrui.
“Il problema è che non ci paghi”
La voce che proveniva dall’alto e l’accento russo lasciavano pochi dubbi
sull’origne della lamentela. Piuma Volante era conosciuto per le sue
rivendicazioni sindacali. La leggenda narrava che fosse discendente diretto di
Trotski e che nelle sue vene scorresse senza sosta il più puro sangue
bolscevico, almeno quando non veniva mischiato con il rimedio contro le
vertigini. Il Russo era visibilmente contrariato e il suo trapezio oscillava irrequieto
da una parte all’altra di Michelone. Per sottolineare le sue parole fece una
serie impressionante di volteggi e salti mortali – tutti senza corda e senza
rete di protezione – che avrebbero convinto il più scettico degli oppositori
capitalisti.
“E’ vero, dacci i soldi Dottore. I soldi, ladro!”
Il volteggio era stato superfluo, non era necessario convincere nessuno. La
questione dei soldi era una ferita costantemente aperta presso il Circo Razzoli
e fonte di costanti mugugni e di innumerevoli spunti complottistici. C’era chi
accusava il Dottore di non dichiarare parte dei ricavi, soprattutto quelli
derivanti dallo zucchero filato e dalla vendita di fotografie, e chi invece lo
accusava di non fare investimenti, obbligando Michelone – che ormai aveva più
rattoppi di una bambola di pezza – a fare gli straordinari invece di potere
andare in pensione nel paradiso dei teloni da circo, dove i bambini non fanno i
capricci e i pagliacci non si tolgono mai il trucco, neanche per andare a
dormire. Tutti si trovavano per una volta concordi sul fatto che la paga era da
fame e le roulottes dei veri catorci.
La verità era per una volta molto più banale. Per il circo c’erano sempre
meno spettatori, la concorrenza della famiglia Borlotti era spietata – il loro
numero con i leoni che ballavano con i pattini a rotelle era un vero fenomeno –
e i costi di girare per la pianura Padana con elefanti e tigri, leoni e giraffe
era semplicemente proibitivo. Ma il senso dell’onore del Dottore non gli
permetteva di ammetterlo, non solo pubblicamente, ma neanche a se stesso, per
cui era ricorso a ogni tipo di stratagemma per occultare la verità, anche solo
parzialmente.
“I soldi, i soldi”, l’eco sembrava propagarsi all’infinito e in molti
sospettavano che Michelone facesse la sua parte, usando la voce degli altri per
esprimere la sua opinione.
“Smettete di lamentarvi buoni a nulla”. La risposta non era venuta dal
Dottore, ormai ridotto all’impotenza, ma dalla Tutù, che un po’ si vergognava
per averlo lasciato solo in balìa del gruppo.
“Taci, tu che ci vai a letto”.
La frase veniva dal basso e l’accento sardo costituiva un’ottima pista per
identificare nel nano Brontolo il probabile proprietario intellettuale del pensiero.
“Cos’hai detto nano?”
La risposta non tardò ad arrivare e non fu necessario fare complicate
illazioni per capire che Antonio Martello non aveva apprezzato.
“Che tua moglie se la fa con il capo, almeno un paio di volte a settimana,
quando tu affili i tuoi coltelli”, rispose Brontolo, cui i concetti astratti
stavano un po’ stretti e aveva la tendenza ad accompagnare le parole con dei
gesti esplicativi. Stava ancora mimando una pratica sessuale a metà tra la fellatio e il cunnilingus che volò il primo coltello. Ma il nano era tanto basso
quanto agile e soprattutto dotato di un’inesauribile capacità di sopravvivenza.
Il coltello si conficcò nella panca di legno su cui era seduto e un secondo
dopo Brontolo aveva già trovato rifugio in mezzo al gruppo, sapendo che
Martello non avrebbe osato tirare coltelli nella folla.
“Il nano ha esagerato, ma ha ragione”, disse la contorsionista thailandese
con la testa tra le gambe, proprio mentre Martello si stava calmando. Il
ritorno di fiamma fu istantaneo, più veloce della bocca di un drago, anche se questa
volta non se la prese con la piccola thailandese, ma con sua moglie Mariolina
Biggetta detta Tutù, donna della sua vita, almeno fino a quel momento. I
coltelli partirono all’unisono, sei lame volteggianti nell’aria che sapeva di
sterco d’elefante. Si conficcarono all’unisono, facendo un unico tac contro il legno di frassino della
parete divisoria tra il settore premium
e quello children. Partirono urli,
accuse di omicidio, qualcuno stava già chiamando l’ambulanza e la polizia,
quando si accorsero che la Tutù era integra, nessun pezzo mancante, neanche una
goccia di sangue. In compenso i coltelli l’avevano bloccata contro la parete di
legno e non le permettevano il minimo movimento.
“Tu aspetta lì Tutù, che poi ne parliamo, prima devo chiarirmi con questo
stronzo”, e si lanciò rosso di rabbia contro l’Uomo Cannone che cadde riverso
nello sterco d’elefante e non capiva perché Martello l’iracondo ce l’avesse con
lui.
“Bastardo!”
Martello aveva afferrato l’Uomo Cannone alla gola e stringeva con tutta la
sua forza, che non era molta, visto che l’Uomo Cannone si alzò portandoselo
dietro, tanto da farlo sembrare una specie di mantello che gli pendeva dal
collo. Senza i suoi coltelli Antonio Martello era come Superman in presenza di
criptonite: le gambuccie corte, il petto rientrante, la schiena ricurva,
praticamente un fuscello da gettare al vento. Un movimento delle spalle del
troglodita e Martello atterrò sul truciolato della pista. Con il rigore
analitico che lo contraddistingueva, l’Uomo Cannone gli chiese ragione di tanta
rabbia, al che lui rispose:
“Non potevo certo prendermela con la tua fidanzata contorsionista no?
Molto tradizionalista, Antonio Martello seguiva un suo personalissimo
codice d’onore, in cui le donne erano sacre ed ogni obiezione alle loro azioni
veniva riversata contro l’uomo di riferimento, in questo caso il Cannone.
“Nooooo!!!”
L’urlo giunse istantaneo, un vero grido di panico. Erano mesi che tutti
mantenevano il segreto sulla relazione tra la microscopica thailandese e il
ciclopico Uomo Cannone per paura della gelosia di Michelone. L’ultima volta che
aveva sospettato che una sua
contorsionista lo tradisse con
qualcuno, c’era stato un terremoto. Non un terremoto metaforico o fittizio, ma
un vero terremoto. Concentrato nell’area in cui il circo era installato, Michelone
aveva causato un terremoto potentissimo, che non aveva causato vittime solo per
miracolo. Gli spettatori erano stati sbalzati dalle panche e avevano nuotato a
mezz’aria come astronauti in una navicella spaziale, poi erano precipitati
violentemente, atterrando sulle gradinate e la pista. Rimasero riversi e
doloranti nelle posizioni più disparate, come tanti birilli abbattuti da una
palla da bowling. L’intera struttura
aveva oscillato paurosamente, producendo un boato simile all’urlo di un orco, i
cavi di metallo fibravano così intensamente da produrre un suono come di
violino, lungo e vibrante, armonico e struggente come un accordo in re minore.
In molti avevano pensato che quella era la vera voce di Michelone, che stava
riversando in un canto triste e disperato tutto il suo amore impossibile per la
contorsionista.
“Nooooo”, ripeterono in coro gli artisti, soprattutto quelli che avevano
assistito all’ultimo terremoto.
In preda al panico, ognuno reagiva a modo suo. C’era chi – come l’Uomo
Cannone e il Dottore – era rimasto tetanizzato, bloccato nella posizione
iniziale e non riusciva a muoversi. Di questo gruppo faceva parte, suo
malgrado, anche la Tutù che era ancora bloccata dai coltelli del marito, ma che
non si sarebbe mossa per nulla al mondo: il terremoto di Michelone era stato il
momento più bello e intenso della sua vita e non se lo sarebbe persa per nulla
al mondo.
C’era chi aveva preso la via della fuga, anche se nella concitazione del
momento si era sbagliato di direzione e continuava a sbattere contro gli altri
che si muovevano in direzioni opposte. Neanche un acceleratore di particelle
avrebbe potuto creare più scontri del moto cieco e casuale dei circensi presi
dal panico. Finirono per creare un flusso circolare, come quello dei cavalli
dell’esibizione equestre, non si sa se nell’illusione che una via d’uscita si
potesse aprire all’improvviso oppure semplicemente assecondando il movimento
degli altri.
Ma la maggioranza scelse una terza alternativa, istintiva come le
precedenti, che era quella dell’aggressione e della violenza gratuita.
Bartezzaghi il giocoliere iniziò a scagliare le clave infuocate contro il gruppo
che correva in cerchio, dando prova di grande precisione nel lancio,
abbattendone una buona parte e incendiando i vestiti dei superstiti. Il nano
Brontolo aveva recuperato il coltello con cui Antonio Martello aveva tentato di
colpirlo e mostrava chiare intenzioni di vendetta, oltre che una velocità di
corsa ben superiore alle aspettative. Le quattro sorelle equilibriste – la cosa
non stupirà – diedero fondo a tutto il loro bagaglio d’esperienza nella sottile
arte della lite familiare: non si distingueva più di chi era la mano che tirava
i capelli dell’altra o quale bocca mordeva quale polpaccio. Volavano insulti in
salernitano stretto, spesso indistinguibili. Volavano in aria ciocche di
capelli e pezzi di vestiti come stelle filanti e coriandoli a carnevale. Anche
le siamesi ebbero una violenta reazione e sfogarono in un lampo tutta la
frustrazione di una vita passata ad essere l’una lo specchio riflesso
dell’altra. Litigavano in mandarino (quella di destra) e in cantonese (quella
di sinistra), rinfacciandosi dispetti e accusandosi di essere stata l’una la
causa della sciagura dell’altra. Dalle parole passarono rapidamente ai fatti:
ognuna comandava un braccio, ma stranamente non quello più vicino alla sua
testa, ma quello opposto. Quindi la siamese di destra tirava l’orecchio
dell’altra con il braccio sinistro, mentre la siamese di sinistra usava il
braccio destro per cercare di strangolare la sorella, rendendosi però conto
della difficoltà di effettuare quell’operazione con una mano sola.
Oltre all’acrobata, che assecondava il movimento degli altri volteggiando
pericolosamente da una parte all’altra del tendone, solo due persone non
stavano partecipando alla grande commedia che stava andando in scena sulla
pista del Circo Razzoli. Giuseppe il clown e Denise la domatrice di gatti
rimanevano seduti sulle gradinate, assistendo allo spettacolo più bello che
avessero mai visto: le pupille dell’altro. Si conoscevano da molto tempo, da
quando Denise era scappata da casa e aveva cercato una sistemazione di fortuna,
lavorando prima dietro le quinte e vendendo noccioline e poi creando il suo
numero, nato quasi per caso giocando con i molti gatti che adottava in ogni
città. Denise doveva avere diciassette anni quandò Giuseppe la vide per la
prima volta e lui pochi anni di più. Nonostante si conoscessero ormai da più di
quindici anni, Giuseppe di lei sapeva pochissimo, anche perché era l’unica –
oltre al nano Brontolo – a non visitarlo regolarmente per le sedute di
confessioni e consigli. In realtà Denise non parlava con nessuno, ed evitava
qualsiasi tipo di comunicazione che non fosse puramente professionale. Per
tutti era un mistero e le voci più maligne si erano diffuse per spiegare il suo
strano comportamento, che in realtà era semplicemente causato da una timidezza
estrema, quasi patologica. Denise aveva accettato la sua condizione e non si
preoccupava di mettere a tacere i pettegolezzi. Si occupava solo dei suoi
gatti, che non parlavano ma a cui comunicava ciò che gli altri non avrebbero
capito.
Quanto al clown Giuseppe, non si faceva illusioni. Denise gli era sempre
piaciuta, ma era stato scottato troppe volte da colleghe del circo – acrobate,
contorsioniste, pagliacce, cavallerizze, domatrici di elefanti e di leoni,
mangiatrici di spade e giocoliere – da poter credere che Denise fosse una
persona prima di essere una circense. Perché gli artisti circensi non sono
esseri umani, almeno non nel senso antropologico del termine. Da un punto di
vista fisiologico non si distinguono molto dai loro simili: mangiano, bevono,
sudano, ingrassano e dimagriscono. Ma da un punto di vista comportamentale sono
una razza a parte, incompresibile anche per uno come Giuseppe – circense figlio
di circensi – che in quell’ambiente era nato.
Né Giuseppe né Denise riuscivano a staccare lo sguardo da quello
dell’altro. Per la prima volta la domatrice di gatti riusciva a guardare
qualcuno dritto negli occhi. Prima aveva sempre guardato lo spazio di pelle tra
le due ciglia, quello che separa gli occhi, poco sopra al naso. Occasionalmente
poteva guardare un occhio, oppure l’altro, ma i due occhi allo stesso tempo mai.
Quanto a Giuseppe, per la prima volta da molto tempo la vedeva senza il suo
costume di scena: niente perline, né calze argentate e scintillanti.
Soprattutto nessuna traccia di quel trucco che sembrava una piuma d’uccello esotico,
con delle strisce verdi, gialle e azzurre a formare un’onda che si perdeva
nelle tempie. Si rese conto di quanto fosse bella, la pelle chiara e i capelli
castani, le sopracciglia fine e le labbra di un rosa quasi etereo. Giuseppe la
stava guardando e la stava ascoltando. Non le parole, che anche quel giorno
rimasero chiuse nel suo petto, ma il battito del suo cuore. In mezzo alla
gazzarra che li circondava – tra urla, spinte e botte fratricide – percepiva
perfettamente il pum pum del suo
cuore: lento, regolare, vero.
“Giuseppe, Giuseppe!”, lo chiamò il Dottore dal centro della pista, con la
giacca sbottonata e il farfallino disfatto. Aveva perso il cappello e il
riporto si era scomposto, lasciandolo con una lunga ciocca di capelli di un
nero innaturale che pendeva dal lato sinistro della testa.
“Giuseppe falli smettere, ti prego!”, la sua era più di una domanda
d’aiuto. Era una vera supplica da uomo disperato, da chi non ha più alternative
né speranza, che ha perso la faccia e che sa che non la riavrà indietro.
Il clown Giuseppe esitò. Sapeva che aveva il potere di farli smettere.
Avrebbe potuto prendere il microfono e iniziare il suo spettacolo come ogni
sera e quello sarebbbe probabilmente bastato a fermare la lotta che si stava
svolgendo. Fu tentato di rispondere alla supplica del Dottore, stava quasi per
alzarsi, ma si trattenne. La sua non era vendetta contro il Dottore. Per quanto
Razzoli lo detestasse, lui non ricambiava quell’odio. In Razzoli vedeva un uomo
solo, costretto a recitare la sua parte perché gli altri continuassero a
recitare la loro vita. In qualche modo ammirava la sua dedizione alla causa, il
suo stoicismo e la sua lotta titanica e antistorica.
Infine si alzò, prese Denise per mano e uscirono insieme dal tendone. Il
Direttore si accasciò sulle ginocchia e si mise a piangere, come un bambino
nella tormenta. Il trucco si sciolse in dense gocce nere che andarono a macchiare
la giacca rossa dai bottoni dorati.
Pochi minuti dopo faceva la sua entrata Leonardo il leone, seguito da
Michele, Joseph, Linnette, Rambo e Rachele. I sei leoni si posizionarono in
semicerchio all’entrata di Michelone, bloccando al tempo stesso ogni via di
fuga. La reazione non fu immediata, molti erano troppo intenti a picchiarsi,
mordersi e insultarsi per rendersi conto di quello che stava succedendo. Fu un
processo piuttosto graduale, come una canzone che finisce in un decrescendo
progressivo, fino a che anche l’ultima nota scompare nel silenzio. Infine erano
tutti in piedi in attesa che succedesse qualcosa. In molti guardarono il
Dottore, ma era chiaro che in quello stato pietoso non sarebbe stato in grado
di domare neanche a un topo.
Come in una coreografia attentamente studiata, i sei leoni si distribuirono
a cerchio attorno alla pista e iniziarono a camminare lentamente verso i
circensi, con le fauci spalancate e lo sguardo di chi ha visto un’abbondante
colazione. I circensi si strinsero verso il centro, sempre più vicini gli uni
agli altri, fino a che lo spazio terminò e furono costretti ad abbracciarsi. Ma
i leoni non cessavano di progredire, con lento passo sadico. Fu Piuma Volante a
risolvere la situazione, lanciando una corda dal suo trapezio, a cui si
aggrappò immediatamente la contorsionista thailandese, seguita dall’Uomo
Cannone, Brontolo il nano e Bartezzaghi il giocoliere. L’ultimo a salire fu il
Dottore, incerto fino all’ultimo tra affrontare una morte degna oppure scegliere
una salvezza ignobile. Decise per la seconda.
In pochi secondi l’intero circo era appeso al trapezio di Piuma Volante. Un
miracolo della fisica, visto che i cavi dovevano sopportare cento volte il peso
per cui erano state costruiti, ma era chiaro che Michelone ci stava mettendo il
suo zampino. I circensi rimanevano appesi con le mani di chi li precedeva, in
una piramide umana sospesa. L’unico ad usare le gambe invece che le braccia era
stato Inverso, che non volle rinunciare ai suoi principi neanche nel pericolo.
Quando la piramide umana smise di oscillare, il clown Giuseppe apparve
all’entrata, con ancora in mano la frusta con cui aveva fatto entrare i leone.
Era perfettamente struccato, non una traccia di cerone gli si poteva vedere in
faccia o sul collo. Era vestito di un completo grigio, una camicia bianca
perfettamente stirata, una cravatta blu e un cappello alla Humphrey Bogart. Al
suo fianco c’era Denise, con un tailleur beige, un cappello grigio dalla forma
arrotondata, la gonna al di sotto del ginocchio e scarpe nere a mezzo
tacco. Giuseppe sollevò il bavero della
giacca come se avesse freddo, prese il microfono a forma di cono gelato, lo
accese, aspettò che la musica da circo terminasse e disse con una voce che
parve non essere sua: “This is the
beginning of a beautiful friendship”.
Cinse la vita di Denise e uscirono di scena, lasciando a Michelone il
compito di chiudere la tenda dietro di loro.
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