martedì 5 maggio 2015

Incroci di convergenze e divergenze (racconto)


-E‘ stato Botolo.
-Come fai a dirlo?
-E‘ stato lui.
-E io ti ripeto: come fai a esserne tanto sicuro?
-Lo so.
-E ti pareva, Mister Genius Genialis – Lisa accompagnò le sue parole portandosi le mani attorno alla testa come se stesse accarezzando un enorme casco virtuale – tra poco non ci sarà più spazio per il tuo enorme cervellone in questa stanza, ci toccherà traslocare.
-La dimensione del cervello non c’entra con la sua funzionalità. Sennò il tuo, che è femminile e quindi più piccolo, dovrebbe funzionare peggio del mio, che è maschile.
-Non è quello che pensi in fondo?
-Decisamente no, anche se a volte non mi lasci altra scelta. Ma nel tuo caso non è una questione di capacità. Più che altro, direi, il tuo è un problema di scelte e di opportunità.

Lisa non rispose immediatamente. Si fermò a riflettere un istante sulle parole appena pronunciate da Antonio con il suo solito tono pedante, analitico e involontariamente saccente. Una reazione emotiva e incontrollata era quello che voleva, per poi muovere le sue pedine d’accusa, secondo la classica strategia finalizzata a  bollarla come preda dell’irrazionalità femminile. Ma non questa volta.

-Mettiamo da parte per un momento la dimensione rispettiva dei nostri encefali – continuò scandendo lentamente le parole e dando uguale peso a ciascuna per evitare qualsiasi tipo di tono – e concentriamoci sull’accusa che hai mosso contro Botolo.
-Non era un’accusa, è un’affermazione.
-Diciamo un’affermazione accusatoria, per semplicità.

Antonio non trovò niente da dire e non rispose. Si aspettava il classico scoppio d’ira che gli avrebbe spianato la strada verso una facile vittoria e si stava ritrovando in un territorio di battaglia a lui nuovo.

-Tu sostienti che sia stato Botolo – riprese Lisa.
-Mi sembra un’evidenza, diciamo, oggettiva.
-E quali sono le caratteristiche di tale oggettività?
-Essenzialmente il fatto che non può essere stato nessun altro – Antonio aprì il palmo della mano come a pesare l’aria – chi altro può essere stato?
-Il vicino di casa, gli alieni oppure un gesto di un’automutilazione di Filippo.
-Si stava precisamente parlando di oggettività Lisa – la chiamava per nome solo quando stava per imboccare la lunga china dell’arrabbiatura, normalmente piuttosto flemmatica.
-E qual’è la tua definizione di oggettività? – Lisa stava chiaramente optando per un logorante conflitto d’attrito.

Antonio non rispose. Si limitò ad andare in soggiorno e a consultare il dizionario. Tornò dopo pochi secondi armato della definizione di Treccani in persona.

-Aderente alla realtà dei fatti, non influenzato da pregiudizi – riferì a Lisa con zelo.
-Appunto! – la parola le era uscita sotto forma di un urletto un po’ troppo acuto.
-Apputo cosa?
-Appunto – ripeté Lisa, questa volta con voce da baritono.
-Appunto – chiosò Antonio che aveva guardato l’orologio e si era reso conto che era ora di cena e stava cercando una soluzione rapida a quella guerra di trincea.
-No, appunto lo dico io.
-OK.

Antonio stava tentando la tattica della resistenza passiva, o anche della desistenza. Aveva saltato il pranzo e aveva una voragine nello stomaco. Sarebbe stato anche disposto a darle ragione pur di poter cenare presto, ma in quel caso non ce l’aveva proprio, e scelse lo stoicismo a oltranza.

-L’hai detto tu no?
-Cosa ho detto?

Sembrava chiaro che le fettine di vitello sarebbero rimaste in frigo ancora per un po’.

-La definizione di oggettivo – Lisa ripeté citando a memoria – aderente alla realtà dei fatti, non influenzato da preconcetti.
-Pregiudizi per l’esattezza.
-Va bene, pregiudizi.

Lisa stava per aggiungere un commento sarcastico sulla rigidità da ingegnere di Antonio, ma decise di conformarsi fino in fondo alla nuova tattica di guerriglia: lo voleva lavorare ai fianchi.

-Va bene anche preconcetti, in fondo sono sinonimi – tentò di concludere Antonio salomonicamente, sperando che un accordo su un dettaglio le avrebbe fatto dimenticare l’origine del diverbio e avrebbe portato all’apertura trionfale della porta del frigo.
-Io vedo due elementi in questa definizione. Numero uno – e qui Lisa si osservò con cura l’unghia del pollice che aveva perso un po’ di smalto – bisogna accertare i fatti.
-Certo i fatti, siamo d’accordo, molto importanti.
-Numero due – continuò lei scoprendo con orrore che anche lo smalto dell’indice si era irrimediabilmente rovinato – assenza di pregiudizi.
-Siamo d’accordo amore.

Non solo Antonio aveva aggiunto la parola “amore”, ma le si era avvicinato facendo intendere che l’avrebbe baciata se lei avesse assecondato il suo gesto.

-I fatti, Antonio, non ci sono – Lisa si era mossa di lato e adesso c’era una sedia a separarli fisicamente – punto.
-Filippo ha perso un occhio Lisa! Non ti sembra un fatto? Di quale altro fatto hai bisogno?
-Certo, ma qui non stiamo parlando di questo.
-E di cosa stiamo parlando allora Lisa?


Antonio sentiva che l’escalation sembrava inevitabile e scaricava la sua frustrazione mettendo e togliendo il tappo a una penna che aveva preso dal tavolo.

-Della causa, o se vuoi, del colpevole di tale atto.
-Che non è riferibile a Botolo chiaramente – Antonio non riuscì a trattenere un risolino di scherno.
-Non è oggettivamente riferibile a Botolo – Lisa gli tolse la penna dalle mani e la ripose sul tavolo.
-Oggettivamente il tuo gatto Botolo è l’unico essere vivente che abbia potuto togliere un occhio molto oggettivo al mio cane Filippo, anch’egli estremamente oggettivo. E lo sai perché può essere solo lui? –

Antonio aveva una certa passione per le domande retoriche.

-Perché lo dici tu – lo spiazzò Lisa.
-Perché sono rimasti soli tutto il santo pomeriggio, senza interferenze esterne (ti ricordi che abbiamo un sistema d’allarme?) e quindi non può oggettivamente esserci nessun altro colpevole – Antonio si soffermò un attimo a riflettere per essere sicuro di non avere omesso nulla – tranne se consideriamo la teoria degli alieni come una possibilità razionalmente accettabile.
-Ascoltami bene perché forse non stiamo parlando la stessa lingua.
-La lingua è la stessa, Lisa, ma la comprensione sembra divergere.
-Se, diciamo ad esempio, un essere A e un essere B coesistono nello stesso spazio per un determinato periodo di tempo – continuò Lisa svelando insospettate capacità di astrazione – e l’essere A risulta mutato nel tempo nelle sue caratteristiche fisiche...
-Diciamo “definitivamente menomato”, giusto per la precisione.
-Lasciami finire!
-Scusa.

Le fettine di vitello stavano tristemente scomparendo all’orizzonte.

-Allora, secondo la tua teoria, l’essere B deve essere necessariamente la causa di tale mutazione e quindi incontrovertibilmente il colpevole.
-La tua equazione è un po’ claudicante e forse è meglio prendere spunto dal tuo campo.
Ingegnere del cazzo! – si lasciò sfuggire Lisa. Poi dimostrando fedeltà alla linea strategica si corresse – scusa Antonio, continua pure.
-Ecco, cosa stavo dicendo?
-Non lo so.
-Non sopporto quando mi interrompi.

La lucidità di Antonio era annebbiata causa basso livello di glucidi nel sangue. Non riusciva a vedere nulla, tranne le fettine di vitello in padella, con salsa di limone e menta, magari accompagnate da puré di patate con una spolverata di cannella e delle cipolline in agrodolce.

-Antonio ci sei? – Lisa lo richiamò dalle sirene del miraggio.
-Ah ecco, cosa volevo dire, beh sì. Se due persone vivono nella stessa casa e una viene uccisa nel momento in cui l’altra è presente, non è normale sospettare dell’altra?
-C’è una certa differenza tra sospetto e condanna, non so se l’avevi notato.
-Certo – ammise Anotnio con rammarico, conscio dei suoi limiti in fatto di giurisprudenza. Stava entrando in un vicolo cieco – ma se tu fossi un giudice, per una volta, e non un avvocato.
-Avvocata prego.
-Avvocata certo. Ecco, in quanto giudice. A proposito, si dice giudicessa o giudica?
-Vai avanti, scemo.
-Insomma, in quanto giudice donna, non condanneresti l’altra persona in assenza di un alibi?
-No.
-Non ci credo.
-Non crederci.
-Appunto non ti credo.

Il vicolo era chiaramente totalmente cieco. Antonio per una volta non sembrava capace di vincere sul suo campo, quello del sillogismo. Lisa, dal canto suo, si sentiva in colpa per quello che era successo al povero cane Filippo, che in fondo non le aveva fatto nulla di male, tranne essere il nemico giurato del suo adorato gatto Botolo.

-Senti – dissero entrambi contemporaneamente.
-Scusa parla tu – sorrise Antonio.
-No dai, è il tuo turno – rispose Lisa conciliante.

Continuarono a fare melina per un po’ finché Antonio, vedendo aprirsi un’opportunità di sedersi a tavola, continuò.

-Mi sembra inutile discutere sul problema.
-D’accordo – Lisa stava adottando una tattica attendista.
-Concentriamoci sulla soluzione.

Antonio sembrava essersi reincarnato in Matteo Renzi, gli stavano spuntando anche i nei sulla faccia.

-Ovvero?
-Che non succeda più qualcosa di simile. Prevenzione.
-OK, siamo d’accordo.

Seguì un discreto silenzio, in cui Antonio cercava le parole adatte e Lisa lo guardava, curiosa di capire su quale specchio intellettuale si sarebbe arrampicato.

-Non voglio insinuare che la colpa sia solo di Botolo.
-Perché sarebbe errato – puntualizzò Lisa.
-Perché sarebbe inverificabile – corresse Antonio.
-Errato barra inverificabile. Punto.
-Ma poniamo l’ipotesi, dico solo un’ipotesi e nulla più, che ci potesse essere un alterco, diciamo fisico, tra Botolo e Filippo.
-Sicuramente non causato da Botolo.
-Lasciamo stare provocazioni e responsabilità. Parliamo di conflitto fisico e basta.
-Va bene, ma reitero il punto di cui sopra.
-Ecco, in caso di conflitto aperto, violento diciamo, risulta evidente che le unghie di Botolo (e ciò indipendentemente da chi abbia iniziato la zuffa) rappresenterebbero un pericolo evidente per Filippo.
-Quindi? – Lisa aspettò a reagire perché voleva capire dove voleva andare a parare.
-E quindi, per ridurre i danni potenziali, magari, potremmo tagliargli le unghie.
-Cosa? Tagliarli le unghie??? – Lisa aveva abbandonato ogni prudenza e tattica d’attrito. Era molto vicina alla strategica Hiroshima e Nagasaki.
-Era solo una proposta – Antonio stava tentando di disinnescare la bomba prima che esplodesse, con gravi danni per la sua glicemia.
-Una proposta del cazzo direi!
-E’ solo un’opinione, la mia – tentò di minimizzare.
-Un’opinione certo. Ma non di meno un’opinione del cazzo, la tua.
-Un’opinione del cazzo che potrebbe essere rispettata.
-Io la rispetto, la rispetto molto, tantissimo. Ma non per questo cessa di essere del cazzo, anzi cazzissimo direi.
-Perché? Qual é il problema?
-Senti, mi sembra evidente che le unghie del povero Botolo sono sicuramente meno pericolose delle zanne di quella bestia di Filippo. Perché non gli tagliamo i denti allora? Magari possiamo asportargli l’intera mandibola, oppure saldarla all’arcata superiore.

Antonio dovette concedere che la logica di Lisa era inappellabile. Lisa, dal canto suo, continuava a sentirsi sempre più in colpa per l’occhio perso da Filippo, che giaceva accucciolato e mogio sulla sua copertina di lana a quadratoni rossi e blu, con il muso nascosto sotto la coda. Si rese conto che quel senso di colpa era una bomba a orologeria, pericolosissimo a lungo termine. Se la discussione fosse continuata, avrebbe probabilmente finito per cedere a qualsiasi richiesta.

-Soluzione provvisoria.
-Uhm – Antonio vedeva uno spiraglio gastronomico aprirsi all’orizzonte.
-Separati ma uguali.
-Richiama un po’ le leggi razziali americane.
-Uffa.
-Spiegati meglio.
-Semplice: quando noi non ci siamo, rimangono in stanze separate.
-Ma Filippo ha bisogno di spazio Lisa, dai!
-Anche Botolo se è per questo, ma magari uno può stare in una stanza e l’altro avere accesso al resto dell’appartamento.
-Mah...
-Lasciami finire.
-A giorni alterni – tagliò corto Antonio.
-A giorni alterni – concluse Lisa.
-Affare fatto?
-Affare fatto.

Si strinsero le mani soddisfatti.

-Hai fame Lisa? Ieri ho comprato delle fettine di vitello.
-Scusa Antonio, ma le ho mangiate a pranzo. Se vuoi ci sono i resti delle lasagne bruciate di domenica in frigo. Te le metto nel microonde?

Antonio non ebbe la forza di reagire. Prese la sedia, si sedette, appoggiò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi. Aveva adottato la stessa posizione di Filippo, faceva venire il magone di tristezza.

-Scherzo, le fettine sono già pronte, basta riscaldarle.  

lunedì 2 febbraio 2015

Lo zen e l'arte del pranzo di Natale

E’ la vigilia di Natale e ti mancano ancora tre regali: quello per tuo fratello, quello per tuo padre e quello per tua cognata. Sono le dieci di mattina e gli orsi polari stanno giocando a tressette nel parcheggio sotto casa. I vetri del tuo appartamento sono ricoperti di un doppio strato di ghiaccio e la tua vita dipende da una caldaia difettosa.
Domani sarà il venticinque dicembre, il giorno più atroce dell’anno. I tuoi nipoti saranno nervosi e sovraeccitati, tua cognata, tuo fratello in crisi d’astinenza da Serie A e tuo padre in piena crisi di panico (in particolare se usare la tovaglia verde o quella rossa). Tu cadrai probabilmente in una depressione suicida verso le sei di sera, che coincidono di solito con la fine del pranzo, poco dopo il triplice ammazzacaffé e prima della lavanda gastrica.
Tranquillo, non farti prendere dalla disperazione. Natale è domani, oggi c’è ancora tempo per lo stress da vigilia, una battaglia navale per trovare parcheggio e la lotta grecoromana al supermercato. Ti tuffi nell’armadio della tua stanza in cerca della tua armatura medioevale, dell’alabarda spaziale e dello scudo atomico, che ti aiuteranno nella tua missione eroica. Trovi solo un berretto di lana, dei guanti bucati e una sciarpa rosa.
OK, ce la possiamo fare, ti dici chiudendo con circospezione la porta dietro le spalle. I nemici sono dappertutto, la prudenza non è mai troppa. Adesso usciamo, compiamo la missione e rientriamo prima che la tempesta cosmica ci colpisca con i suoi raggi gamma, ti rassicuri scendendo le scale. Apri la porta, ti getti fuori e affronti la forza degli elementi scandendo il tuo urlo di battaglia ninja. La tua armatura di riserva ti sta proteggendo a sufficienza per permetterti di arrivare al garage. Proprio in quel momento ti accorgi che ti sei dimenticato le chiavi della macchina. Cazzo! Batti in ritirata strategica e ritorni alla base.
Devi fare un enorme sforzo di volontà per affrontare di nuovo il campo di battaglia. Stai quasi per decidere una ritirata definitiva quando la vicina di casa, l’ottantenne nonna Elisa, esce dalla sua tana seguita da una folata di aria dalla temperatura approssimativa di sessantacinque gradi centigradi. Ti chiede se la puoi accompagnare al centro commerciale. Puoi scegliere tra mettere le dita nella presa della corrente oppure accettare. La decisione è più difficile di quello che sembri, ma finisci per dire di sì prima dello scadere del gong.
Adesso sei seduto in macchina a meno settantadue gradi. Le tue gambe sono a malapena capaci di schiacciare i pedali, le mani sono attaccate al volante con l’Attack, la condensa del tuo fiato genera delle nuvole di vapore così grandi che quasi non vedi il camion della Melegatti che ti sta tagliando la strada. Nonna Elisa inizia a farti una filippica natalizia sulla prudenza al volante – in particolare in condizioni di strada ghiacciata – e una dettagliatissima lista degli incidenti stradali dal 1923 a oggi. Non capisci come possa non avere freddo, ma ti rendi conto che nonna Elisa accumula calore come i cammelli accumulano acqua. Il suo corpo attualmente ha una temperatura di 54 gradi. Il calore stimola la logorrea. Nonna Elisa non tace un secondo in tutto il tragitto fino al centro commerciale.
La Pachamama cosmica ti fa vincere la lotteria e parcheggi il tuo catorcio  su un’aiuola, con buona pace delle stelle di Natale falcidiate dalla causa di forza maggiore. Fai scendere la vecchia assicurandoti che abbia autonomia termica sufficiente e le dai appuntamento un’ora dopo, sperando che si perda tra la folla. La vedi sparire dietro di te, inghiottita da una massa di Spenderoxaptors: una razza intergalattica di trogloditi carrellomuniti che hanno eletto il consumismo a loro ragione di vita. Sono armati di fucili automatici a cui si possono attaccare dei caricatori di carte di credito che permettono l’acquisto a ripetizione. Il modello è una riadattazione di un progetto pilota sviluppato negli annni quaranta dall’ingegner Kalashnikov, e le carte fanno anche bum bum quando si digita il codice segreto.
Ti muovi per i corridoi del supermercato con atteggiamento panottico, non lasci che un solo centimetro quadrato di prodotti sfugga al tuo sguardo. Come Terminator, analizzi oggetti animati e inanimati con velocità e precisione supersoniche. Le tue cornee sono i tuoi Google Glasses. Riesci a scovare l’offerta speciale tre-per-due anche quando un nemico ha nascosto a proposito il cartello. I tuoi occhi laser riescono a decifrare il codice a barre. Ma hai un problema. Devi comprare degli affettati e un ostacolo insormontabile si sta infrapponendo tra te e gli anelati prosciutti. C’è un muro formato da materia organica rivestita da un misto di tessuti sintetici e naturali. Alcuni respirano ancora.
Il numero indicato dalla lavagna luminosa è tredici, quello che hai in mano è ottantanove. In mezzo settantasei signore di mezza età che cucineranno il cenone per ventidue persone ciascuna, per un totale di milleseicentosettantadue bocche da sfamare. Ricorri al piano B. Fai il resto della spesa aspettando che il contatore arrivi a ottantanove, sperando nella morte per inedia di una parte dei militanti nelle fila nemiche. Ti dirigi verso il banco della carne e devi evitare un nanerottolo vestito da puffo che vuole assolutamente assaggiare il sapore magnetico delle ruote del tuo carrello. Il proprietario dell’animale umano è indaffarato a svaligiare il banco del pesce. Allontani l’intruso, indicandogli una piramide di ovetti Kinder che si trova in direzione sud-sud-ovest. Attratto da altre sirene che ne deviano la traiettoria verso nord-est, lasci che si perda nei meandri del supermercato. Non provi rimorso.
Fettine di maiale senza osso, un pezzo di manzo con osso, due petti di pollo, un pezzo di coda e mezzo cappone. Ti manca ancora mezzo chilo di parmigiano, diciotto uova, due chili di farina, olio d’oliva, carote, sedano e noce moscata. Ci aggiungi un panettone Melegatti che è arrivato con il camion che voleva la tua morte, ma non provi più rancore. Costa solo due euro e novantanove, l’offerta promozionale è sufficiente per raggiungere la pace cosmica.
Sessantaquattro. E’ evidente che se vorrai la fetta di mortadella senza pistacchi tagliata grossa e due etti di prosciutto crudo da cottura, dovrai rimanere fino all’ora di chiusura, sperando che le locuste stellari abbiano lasciato almeno qualche briciola nel banco dei salumi (improbabile). Ti aggiri con l’aria di un marito in attesa del parto del suo primogenito e non lasci che neanche un millimetro di unghie sia risparmiato dai tuoi denti aguzzi di Guerriero di Orione.
Poi noti che una delle locuste si è distratta causa discussione troppo concitata sulle nuove aliquote fiscali e ha lasciato inavvertitamente cadere il biglietto con un numero di venti cifre inferiore al tuo. Ti avvicini al tesoro e lo nascondi col piede. Poi fingi di essere claudicante e trascini la gamba irrigidita lontano dalla locusta verbofila. Recuperi il biglietto e prendi le scorte necessarie prima che la vittima scopra di essere stata derubata.
Decolli con il tuo carrello pilotandolo meglio di Ian Solo in Guerre Stellari, con il vantaggio di non dover parlare con un mostro peloso che emette solo suoni incomprensibili. La barriera delle casse è invalicabile. Centinaia di operai intergalattici stanno operando una complessa catena di montaggio composta da cinque fasi consecutive: 1. Caricare la spesa sul rullo, 2. Aspettare che la commessa passi il codice a barra sul lettore ottico, 3. Mettere la spesa nelle borse, 4. Pagare il dovuto, 5. Scomparire al più presto.
Gli operai sono sorvegliati a distanza dai truci Vigilantes del pianeta Protector che assicurano che lo sforzo bellico vada a buon fine. Molti dei proletari sono sfiniti dal lavoro massacrante, hanno occhiaie profonde e i segni della pellagra. Altri devono gestire al tempo stesso neonati nucleari, cellulari vibranti, tablet luminosi, un pacco di buoni sconto e mogli rompiballe. Alcuni soccombono sotto lo sforzo inumano, con la salvezza a portata di mano. Quello di fronte a te stramazza a terra poco dopo aver pagato, con lo scontrino già in mano. Causa decesso, gli vengono detratti duecento punti dalla carta fedeltà Amici delle Stelle. Il cadavere viene efficientemente eliminato dal servizio di pulizia operato da una cooperativa solidare.
Ce l’hai fatta. Emetti un grido di gioia che ti si strozza in gola. Avevi detto a nonna Elisa di farsi trovare pronta all’uscita dopo un’ora e ne sono passate tre. Te la immagini già solidificata in una stalagtite di ghiaccio, oppure sbranata dai lupi mannari che infestano il parcheggio. Stai già per dirigerti verso il cartello “Reception” per effettuare un disperato appello pubblico, che scorgi i capelli grigio-azzurri di nonna Elisa. E’ seduta nel mezzo della bolgia di borse, stelle lucenti, borsette, cappotti, babbi natali, cappelli, ombrelli, renne, passeggini, scatoloni, regali e anche un cane con l’impermeabile. Sembra immune al caos che la circonda e sta bevendo un cappuccino seduta ad un tavolino nel centro esatto del tornado commerciale. Sembra Calindri nella pubblicità del Cynar. Quando ti vede dice Contro il logorìo della vita moderna.
Recuperi la vecchia che – causa temperatura corporea nettamente inferiore alla media – inizia a parlare al rallentatore come il Maestro Yoda. Anche le concordanze tra verbi, sostantivi e aggettivi non sono il massimo, ma pensi che possa sopravvivere fino al ritorno alla sua tana.
Missione compiuta. Nonna Elisa respirava ancora quando l’hai salutata. L’inventario degli acquisti è positivo, nessun ingrediente è dato per disperso. Soprattutto, il tuo cellulare è muto, nessuno ti ha cercato. Ringrazi il karma e il lato oscuro della forza.
Guardi l’orologio, è ora di incominciare. Ma non c’è fretta. Prima ci vuole un po’ di musica. Vai verso lo stereo, scegli un CD e schiacci play. Le note di un pianoforte zittiscono i rumori di clacson che vengono dalla strada. Ti sembra di vedere le dita agili e leggere di Stefano Bollani che danzano sulla tastiera mentre suona Falando de Amor. I tuoi piedi battono il tempo e accompagnano la musica spingendo dolcemente sui pedali. Non sai di esserlo, ma sei quasi felice.
Muovendoti al ritmo sincopato della musica, tiri fuori la carne, tagli la mortadella a strisce sottili, gratti il parmigiano, tagli il pollo e il maiale. Poi, come un alchimista medioevale che abbia scoperto la pietra filosofale, componi una sinfonia di sapore che per i mortali ha il nome di “ripieno”. Ogni tanto ti fermi, assaggi, mediti. Come Michelangelo, osservi la tua opera e apporti leggere correzioni cromatiche – qui un po’ di bianco parmigiano, lì un po’ di rosa mortadella – finché non raggiungi la perfezione. Quando hai finito il ripieno, apri una bottiglia di Raboso e ti servi una modica quantità, che bevi con parsimonia monacale.
Passi alla seconda fase. Recuperi l’asse di legno che avevi sepolto l’anno prima e ti assicuri che sia ancora in buono stato. Un esame al carbonio quattordici rivelerebbe che quel legno ha otto milioni di anni, perché quell’asse è stata di proprietà della bisnonna della tua trisavola, prima di essere stata trasferita in eredità da una generazione all’altra. Tu l’hai ricevuta da tua madre, che ti ha eletto a depositario del segreto di famiglia.
Prendi un grande coltello e raschi i residui di farina che sono rimasti dall’ultima utilizzazione. Ti assicuri di usare la parte giusta della tavola (quell’altra è utilizzata per i biscotti e in genere presenta delle macchie di burro). Con la precisione di un farmacista, misuri cento grammi di farina 00 per ogni uovo che userai. Decidi di iniziare a impastare dieci uova. Sai già che non saranno abbastanza e che ne aggiungerai almeno altre quattro, ma ormai è una tradizione. Ogni anno inizi con dieci uova per renderti conto che c’è ancora ripieno, ed è un peccato lasciarlo lì.
Formi un piccolo vulcano con la farina. All’interno del cratere ci metti le uova, poi condisci il tutto con un goccio di olio extravergine d’oliva. Con le punte delle dita mischi una parte di farina con le uova, facendo attenzione a non creare una breccia nel muro di contenimento. Sarebbe imperdonabile fare uscire una parte dell’albume sulla tavola di legno. Con molta pazienza aspetti che il liquido assorba il solido per dare forma a una nuova creatura gialla dalla consistenza di plastilina.
Con il grosso coltello tagli un pezzo di pasta e lo appiattisci con l’utilizzo di un mattarello della stessa epoca della tavola. A causa di varie vicissitudini, la superficie del mattarello è irregolare e la sfoglia che ne viene prodotta non è perfettamemente omogenea. Un osservatore esterno giudicherebbe tale elemento come un’evidente imperfezione, ma la tua vasta esperienza in materia ti permette di apprezzare l’unicità e l’intrinseca qualità del prodotto del tuo lavoro. Nessuno al mondo potrebbe riprodurlo con esattezza. Stai costruendo uno Stradivari e sei l’unico a saperlo.
Tagli la sfoglia in rettangoli di circa due centimetri per tre. Quando hai tagliato tutto, prendi una forchetta e collochi una nuvoletta di ripieno nel centro di ogni rettangolo. Fai attenzione perché ci sia una proporzione tra la dimensione dei rettangoli (visto che sono tagliati a mano sono tutti leggermente differenti) e la quantità di ripieno. Quando hai finito, ogni rettangolo di pasta ti appare come un piccolo berretto giallo dotato del suo ponpon rosa. Non sai dipingere, non sai scolpire, non sai suonare uno strumento, non sai fare fotografie, sai a mala pena recitare il rosario; la provvidenza non ti ha dotato di alcuna capacità artistica, ma in questo momento ti senti la Carla Fracci della cucina.
E’ venuto il momento. Hai aspettato trecentosessantacinque giorni per fare questo gesto e rivivi ognuno dei giorni passati nell’attesa. Prendi il primo rettangolo. Lo posizioni sul palmo della mano sinistra. Lo pieghi facendo combaciare i lati corti e formando così un rettangolo più piccolo. Il ripieno appare ora come una cisti avvolta tra due lembi di pelle. Schiacci i due angoli in prossimità del ripieno. Prendi l’angolo sinistro tra il pollice e l’indidce delle mano sinistra. Fai lo stesso con l’altro angolo e la mano destra. Con gesto veloce, preciso e sicuro – ma che non riusciresti mai a descrivere a parole – finisci l’opera.

Ora non sembra più una cisti tra due lembi di pelle, ma una piccola testa con il bavero della giacca rialzato. E’ un piccolo extraterrestre in provenienza dalla galassia del piacere. Altri lo chiamerebbero, semplicemente, “tortellino”.

mercoledì 14 gennaio 2015

Amore animale (racconto)

Caro Leonardo,

Ogni ora che passo senza vedere i tuoi occhi e sentire il tuo odore sono altrettante pietre che si accumulano sul mio petto e mi impediscono di respirare. Da quando la mia famiglia mi ha proibito di vederti – anche solo in lontananza – l’orizzonte è svanito, inghiottito dal vuoto. Mi ritrovo a camminare senza scopo. Disegno dei cerchi concentrici in uno spazio rettangolare che non ha uscite, solo sbarre che mi impediscono di venire verso di te. Ma più che dei pezzi di metallo scrostato e arrugginito – mio adorato Leonardo – chi mi sta tenendo prigioniera sono le mie sorelle. Margherita, Stefania e Monica si sono traformate in tre sadiche carceriere e io sono la loro unica detenuta, impotente, su cui sfogare il loro desiderio represso di potere. Non sono cattive le mie sorelle, o almeno non lo erano fino a poco tempo fa. Sono solo miopi. Loro riescono a vedere solo il presente e si scordano immediatamente il passato. Fin da piccole hanno sempre scelto di reagire invece di agire, mangiando quando si dava loro da mangiare e bevendo quando c’era acqua da bere. Loro non usano punti di domanda, ma solo degli enormi punti esclamativi, colorati e sonori. Non hanno dubbi, perché ciò equivarrebbe alla morte. Il loro innato istinto di sopravvivenza le tiene lontane dalle decisioni ragionate e coscienti, cullandole nelle certezze delle verità assolute, delle reazioni comandate, necessarie e obbligate.
Questo lo so – Leonardo, amore mio – perché in fondo anch’io, fino a poco tempo fa, ero come loro. Ubbidivo agli ordini, masticavo lentamente, non facevo rumore. Forse se non ti avessi visto passare quel giorno sarei rimasta la Carolina di una volta, attraversando il tempo come il sasso che giace in uno stagno, lasciando che le stagioni decidano se è tempo di emergere o di rimanere coperto dall’acqua. Ma il destino per me  ha deciso diversamente. Il destino ha avuto la forma della mano di un bambino che ha preso quel sasso e lo ha fatto rimbalzare sulla superficia piatta dello stagno. E quel sasso ha preso a saltare e atterrare sull’acqua, per poi schizzare via di nuovo, in un moto infinito di salti e cadute. Quel sasso, Leonardo, è il mio cuore.
Le mie pupille osservano la polvere che cosparge il pavimento, riuscendo a distinguere un granello da ogni altro, ma i mie occhi vedono la tua lunga chioma bionda. I miei timpani ascoltano le grida del mercato rionale – le urla dei bambini che giocano, quelle di rimprovero dei genitori, l’invito a comprare del venditore di cocomeri e gli annunci del circo – ma le mie orecchie sentono la tua voce profonda e cavernosa. Le mie narici percepiscono odori quotidiani di cibo e di gente, il polline del gelsomino e la fragranza delle agavi, ma il mio naso sente la tua essenza virile e selvaggia. Nulla ha più senso senza di te. Come posso nutrirmi, muovermi e cercare di dare un senso alla mia esistenza, se non posso accerezzare il tuo corpo, addormentarmi contro la tua schiena, baciare i tuoi bellissimi occhi color nocciola? Sarebbe come mangiare una minestra insipida dopo avere assaggiato una goccia del nettare degli dei. Preferisco il digiuno. Preferisco morire.
E’ paradossale in fondo – mio caro Leonardo – che la ragione stessa della mia segregazione, ovvero proteggermi da te, sarà la causa della mia fine. “Lo facciamo per il tuo bene”, “ti farà solo del male”, “è pericoloso”; le mie sorelle non sanno dire altro. Non sono che dei pappagalli dal collo troppo lungo e dalla vista troppo corta. Con loro è impossibile discutere e ragionare. Non perché non siano sufficientemente intelligenti, ma semplicemente perché loro non ti vedono per quello che sei. I loro occhi sono accecati dalla cataratta della paura e dalla nebbia del pregiudizio. Mi viene quasi da ridere se ripenso al passato, a quando anch’io – vedendo i tuoi fratelli – correvo a nascondermi tremando di terrore, e non sollevavo la testa fino a quando erano scomparsi all’orizzonte, camminando fieri e baldanzosi come soldati in file indiana. Quante volte sono scivolata in preda al panico e ho rischiato di cadere, troppo ansimante per emettere anche solo l’ombra di un suono, la parvenza di un sibilo.
Tu mi hai cambiata e per sempre. Non posso tornare ad essere quella di prima, la Carolina un po’ ebete ed assente. Ma mi impediscono di diventare ciò che sento ormai di essere: la tua futura moglie. E in questo limbo senza fine, grigio come il suolo lunare, sterile come un deserto, mi ritrovo ad aspettare la mia fine. Il sasso continua a rimbalzare sullo stagno, ma la forza che lo anima è sempre meno intensa, ogni balzo è più corto del precedente, meno alto del precedente. Tra poco la sua inerzia non gli permetterà più di continuare il suo moto e, dopo un ultimo slancio, si spegnerà per sempre, condannandolo ad affondare nel torbido fondale melmoso. Sarà l’ultimo battito del mio cuore. E quel battito, Leonardo, sarà solo per te. Unico e pieno di lacrime d’amore.

Con tutto il mio cuore

Carolina



Gent.le Sig.na Carolina,

Ho letto con particolare interesse la sua e non le nascondo una certa sorpresa, sia riguardo la forma, che il contenuto. Non mi fraintenda, ho enormemente apprezzato tanto lo slancio emotivo che le immagini evocative che lei ha utilizzato, nonché la passione che anima il suo testo. Fatti i dovuti paragoni, la sua prosa ha rievocato letture della mia infanzia, in particolare “Cime Tempestose” di Emily Brontë. Non nascondo una certa ammirazione per la sua determinazione, la predisposizione al sacrificio e un indubbio coraggio nell’affrontare di petto le consuetudini stabilite e le regole sociali.
Fatto salvo quanto sopra, mi preme sottolineare come tali regole – per quanto in essenza arbitrarie – rappresentino un male necessario per preservare la nostra società dall’implosione in un’anarchia senza fine. I recenti avvenimenti di cui sicuramente Lei avrà sentito parlare – mi riferisco al deprecabile episodio di violenza cui si sono abbandonati vari membri del circo di cui facciamo parte – sono un chiaro esempio dei danni che possa causare l’assenza di un procedimento strutturato per la presa di decisioni e di una chiara gerarchia dei ruoli.
Non vorrei qui apparirle conservatore e pedante. La mia non è una requisitoria sui valori tradizionali e la perdita di identità delle giovani generazioni. La mia posizione è il frutto di una lunga riflessione sulla nostra condizione e il conflitto che dobbiamo gestire tra i nostri istinti e la realtà dei fatti. Alla sua spontaneità ed entusiasmo debordante, mi permetto di anteporre considerazioni di pura pragmatica, al costo si apparirle cinico.
Partiamo dai fatti. Lei, Signorina Carolina, appartiene alla specie Giraffa Camelopardalis, nata in cattività in una regione dell’Italia meridionale e addestrata a un numero circense che è stato introdotto a programma nel Circo Razzoli due mesi fa. Lei è per sua natura erbivora, ungulata artiodactyla, ruminante. Il suo principale sistema di preservazione della specie è la fuga, facilitata da una resistenza non indifferente che le permette di correre ad una velocità  relativamente sostenuta per un periodo prolungato di tempo.
Il sottoscritto, dal canto suo, appartiene alla specie Panthera Leo, nato in cattività presso lo zoo di Civitavecchia e da vari anni Leone Principale dello spettacolo creato e diretto dal Dottor Emilio Razzoli, proprietario dell’omonimo circo. Io sono per mia natura carnivoro, dotato di lunghie unghie retrattili e sono considerato in tutti i libri di zoologia come un “predatore alfa”, ovvero colui che si colloca all'apice della catena alimentare. La principale strategia d’alimentazione della specie a cui appartengo è la caccia, principalmente di ungulati, facilitata da una corsa molto rapida, ancorché limitata a distanze piuttosto brevi.
Avendo Lei dato prova di un’intelligenza superiore a quella associata alla sua specie – se non altro per quanto riguarda il lato emotivo – considero inutile addentrarmi in ulteriori approfondimenti etno-biologici che possano ulteriormente provare la nostra incompatibilità genetica.
Non le nascondo che anch’io, in gioventù, ho pensato di lottare contro le convenzioni sociali e di poter adottare un modo di vita diverso, più consono alla mie capacità intellettuali e alle mie aspirazioni spirituali. All’uopo avevo tentato una dieta vegetariana, integrando le proteine necessarie alla mia nutrizione con tofu che mi veniva fornito dal Maestro Rinzai Gigen, un equilibrista giapponese che all’epoca lavorava nel nostro circo. Oltre che per la difficoltà di produrre e/o acquistare tre quintali di tofu al giorno, l’esperimento fu accantonato per la mia incapacità di abbandonare la carne. Lo ammetto, è una deboleezza di cui non vado fiero. E’ un’onta che non riuscirò mai a lavare dalla mia coscienza. Con il tempo, tuttavia, ho imparato a vivere con i miei limiti e ad accettarli.
Prima di chiudere questa mia risposta, di cui spero Lei possa apprezzare almeno la franchezza, mi permetto di fare un’ultima osservazione. Lei, Signorina Carolina, ha un grande talento. L’ho guardata esibirsi a più riprese e mai in vita mia ho visto un numero circense di giraffe così bello e intenso. Inoltre – e spero che ciò non l’offenda – la trovo estremament attraente. Non le nascondo che il suo collo elegante mi ricorda l’armonia dei ritratti di Modigliani. Se fossi più giovane e più forte, avrei forse accetato la grande sfida che Lei mi propone, ma le considerazioni di cui sopra hanno una forza logica tale che devo reprimere il mio moto ideale e accettare i limiti imposti da Madre Natura. Non mi resta che augurarle di riprendersi presto e di incoraggiarla a continuare la sua promettente carriera artistica. La seguirò da spettatore privilegiato e da profondo conoscitore della realtà circense.
Rimango a sua disposizione per ulteriori chiarimenti, nonché – se Lei dovesse considerarlo utile – consigli pratici su come impostare la sua carriera futura, sia presso il circo di cui sono membro, che presso un altro istituto.
Augurandole pronta guarigione, Le porgo

Distinti saluti

Leonardo Leonardi
Capo Leone

Circo Razzoli